Piante Mediterranee | Mille Piante di Mile Kolev - Loc. Piana Guriot 11 - 12069 S. Vittoria D'Alba - Cell. 328.7595132
+393287595132-3280078593 Mille Piante Vivaio e Giardiniere di Mile Kolev Corso Unità d'Italia 65 Piana Biglini 12051 ALBA (CN) info@mille-piante.it

Mille Piante

di Mile Kolev – C.so Unità d’Italia 65 – Piana Biglini Alba (Cn)
Piante Mediterranee

Mille Piante

di Mile Kolev – C.so Unità d’Italia 65 – Piana Biglini Alba (Cn)
Piante Mediterranee


La macchia mediterranea

La macchia mediterranea è uno dei principali ecosistemi. Si tratta di una formazione vegetale arbustiva costituita tipicamente da specie sclerofille, cioè con foglie persistenti poco ampie, coriacee e lucide, di altezza media variabile dai 50 cm ai 4 metri: spesso si tratta di formazioni derivanti dalla foresta mediterranea sempreverde.

La macchia mediterranea propriamente detta non va confusa con altre formazioni arbustive degli ambienti mediterranei, in particolare la Gariga, costituita da arbusti in genere di minore taglia, non sclerofilli, ma spinosi o malacofilli. Scientificamente le macchie rientrano nella classe Quercetea ilicis, mentre le garighe afferiscono ad altre classi, come Rosmarinetea officinalis e Cisto-Lavanduletea. Dal punto di vista dinamico ed ecologico le garighe rappresentano prodotti di estrema degradazione delle macchie e crescono su suoli pietrosi.

La macchia mediterranea si può diversificare per composizione floristica e sviluppo strutturale:

Macchia alta. La vegetazione dello strato superiore è prevalentemente composta da specie a portamento quasi arboreo, con chiome che raggiungono i 4 metri d’altezza. In questa macchia sono rappresentative le specie del genere Quercus (leccio e sughera), quelle del genere Phillyrea (ilatro e ilatro sottile), ed inoltre Arbutus unedo, cioè il corbezzolo, alcune specie del genere Juniperus (in particolare Ginepro rosso), il lentisco e altre di minore diffusione. Queste macchie in certi casi possono evolvere verso il climax della foresta mediterranea sempreverde.

Macchia bassa. La vegetazione dello strato superiore è prevalentemente composta da specie a portamento arbustivo, con chiome che raggiungono al massimo i 2-3 metri d’altezza. Nella composizione floristica possono entrare specie delle garighe, come l’euforbia arborea, le ginestre e altre cespugliose quali i cisti e il rosmarino. Questa macchia in realtà è una forma di passaggio alla vegetazione di gariga.

La macchia mediterranea presenta una distribuzione prevalente nelle zone caldo-aride, caratterizzate da inverni miti e umidi ed estati calde ed aride, con scarse precipitazioni. Ad effetto di tali condizioni, specie fra gli arbusti, ed in generale, è diffuso il fenomeno della estivazione totale o parziale, cioè le piante concentrano la fase di maggiore vegetazione in inverno o in primavera, mentre sono in parziale o totale stasi vegetativa in estate.

La maggior parte delle zone di macchia mediterranea si sviluppa sui declivi con suolo poco profondo e soggetto a un rapido drenaggio, su cui le formazioni della macchia svolgono una funzione importantissima di difesa del suolo dalla erosione da parte degli agenti atmosferici, assicurando un’efficace regolamentazione idrogeologica.

Costituisce un esempio di microambiente, fornendo nutrimento e riparo a insetti, anfibi, rettili, uccelli e mammiferi.

La macchia rappresenta un potenziale stadio di evoluzione verso la formazione forestale della lecceta, la più tipica delle foreste mediterranee.

Possiamo distinguere le specie della macchia mediterranea in:
Specie Arbustive Tipiche e Specie Arboree Tipiche

Specie arbustive tipiche

Fanno parte della macchia mediterranea diverse specie accomunate da alcune caratteristiche (crescita bassa, fusti resistenti, foglie rigide e coriacee)
che le rendono capaci di tollerare i venti salmastri che provengono dal mare.

Erica arborea
Euforbia arborea
Lentisco
Cisto villoso
Cisto marino
Cisto femmina
Alloro
Corbezzolo
Mirto
Rosmarino
Cappero
Palma nana
Ginepro rosso
Ginepro licio
Alaterno
Orniello
Olivastro (oleastro, olivo selvatico)
Ilatro
Ilatro sottile
Ginestra dei Carbonai
Ginestra odorosa
Ginestra spinosa
Sparzio villoso
Caprifoglio mediterraneo
Salsapariglia nostrana
Oleandro
Pungitopo

Erica Arborea

L’Erica arborea è un arbusto sempreverde, dalla corteccia rossastra, a portamento eretto, appartenente alla famiglia delle Ericaceae. Nome comune: Radica.
Descrizione

Ha numerosi rami, anch’essi a portamento quasi sempre eretto. Le foglie sono aghiformi, persistenti e coriacee, verde scuro, normalmente in verticilli di quattro, con margine dentellato.

I fiori sono piccoli, penduli, molto numerosi, riuniti in ricche infiorescenze terminali, dal colore bianco-crema e profumati.

Fioritura: marzo-maggio.

Frutti: capsule contenenti numerosi piccoli semi.

Distribuzione

È distribuita in Africa settentrionale e centro-orientale, Europa meridionale, e nelle Canarie.

In Italia ha distribuzione peninsulare con popolazioni presenti anche oltre lo spartiacque appenninico; è presente anche nelle isole (tipico elemento della macchia mediterranea).
Utilizzi

Le ramificazioni di eriche legate in fascina sono utilizzate per fare scope e infatti veniva chiamata scopiglia, e un tempo potevano costituire le coperture e le pareti di abitazioni povere e capanni.

Per ottenere i bozzoli per la filatura della seta, i bachi erano posti, spesso, su rami di erica.

La parte inferiore della ceppa, era “cotto” (combustione interrotta) nella carbonaia nel bosco, per ottenere un carbone in grado di sviluppare molto calore. Il carbone da legno d’erica era richiesto nelle officine dei fabbri per la forgiatura del ferro.

Il legno rossiccio di erica arborea è duro e pregiato, ed è il materiale più utilizzato nella costruzione dei fornelli da pipa. La parte utilizzata per ottenere la pipa è quella nodosa della base, in angolo, il cosiddetto “ciocco”.
Usi dei fiori

I fiori hanno interesse officinale e la pianta è medicinale. L’infuso delle sommità fiorite è ritenuto diuretico, disinfettante ed antireumatico; anticamente si credeva che avesse la virtù di guarire i morsi delle vipere.

I fiori hanno anche uso apistico: è una buona pianta mellifera, cioè sono bottinati dalle api per il polline, e per il nettare da cui ottengono un ottimo miele monoflorale, anche se, per il periodo di fioritura, ha più umidità rispetto ad altri.

Ritorna alle specie arbustive >>> Vai

Euforbia arborea

Il genere Euphorbia L. comprende un vasto numero di piante dicotiledoni della famiglia delle Euphorbiaceae, erbacee o legnose a seconda della specie.
Etimologia
Il nome Euphorbia (assegnato da Linneo) viene dal latino euphorbium, a sua volta dal greco εὐφόρβιον euphórbion, dal nome personale Εὔφορβος Éuphorbos, cerusico di Giuba II di Mauretania, come riportato da Plinio. Altre possibilità prevedono una derivazione da Euphorbium, con cui s’indicavano le piante (che ora noi conosciamo sotto il genere considerato) che producevano un succo latteo caustico e velenoso utilizzato nella medicina di allora. Euphorbia infine potrebbe derivare da Euphorbius che è formato da due parole: εὖ eû (“buono”) e φορβή phorbḗ, (“pascolo” o “foraggio”), il cui significato finale potrebbe essere “ben nutrito”.
Descrizione
Il genere comprende piccoli alberi, arbusti, rampicanti e piante erbacee. Una percentuale significativa sono piante succulente, alcune delle quali assomigliano straordinariamente ai cacti nonostante non siano per nulla imparentate con questi ultimi, un esempio di evoluzione convergente. Ad eccezione di poche specie (es: E. hedytoides o E. curtisii), questo genere è composto da specie ermafrodite.
Le euforbie hanno una infiorescenza altamente specializzata, il ciazio, composta da un fiore femminile centrale, dotato di pistillo, circondato da cinque o più gruppi di fiori maschili ridotti ciascuno ad un solo stame. L’insieme dei fiori è avvolto da brattee che formano un ricettacolo a coppa, con quattro ghiandole nettarifere marginali, con forme diverse (ellittiche, a mezzaluna ecc). Il fiore centrale si sviluppa prima dei fiori maschili che lo circondano, così ogni ciazio funziona come un fiore ermafrodito. La ghiandole del ciazio generalmente producono nettare, e l’impollinazione è prevalentemente zoofila. Dall’ovario del fiore femminile centrale si sviluppa un frutto tricarpellare.
In effetti, il ciazio è così simile ad un fiore ermafrodita che Linneo e altri autori lo indicavano come un vero fiore. Lamarck tuttavia interpretò il ciazio come una infiorescenza e questo è quanto oggi accettato.
Le euforbie contengono un lattice acre e velenoso, ed alcune sono dotate di spine. Da molte euforbie si ricavano potenti prodotti emetici e catartici.
Distribuzione e habitat
Il genere è diffuso principalmente nelle regioni tropicali dell’Africa e dell’America, ma anche nelle zone dal clima temperato.
Alcune specie (E. dendroides, E. bivonae) sono tipiche della macchia mediterranea. Le specie succulente sono originarie principalmente dell’Africa e del Madagascar.

 

Ritorna alle specie arbustive >>> Vai

Lentisco

Il lentisco (Pistacia lentiscus, L. 1753) è un arbusto sempreverde della famiglia delle Anacardiaceae. In alcune zone è detto lentischio.
La pianta ha un portamento cespuglioso, raramente arboreo, in genere fino a 3-4 metri d’altezza. La chioma è generalmente densa per la fitta ramificazione, glaucescente, di forma globosa. L’intera pianta emana un forte odore resinoso. La corteccia è grigio cinerina, il legno di colore roseo.
Le foglie sono alterne, paripennate, composte da 6-10 foglioline ovato-ellittiche a margine intero e apice ottuso. Il picciolo è appiattito e alato. L’intera foglia è glabra.
Il lentisco è una specie dioica, con fiori femminili e fiori maschili separati su piante differenti. In entrambi i sessi i fiori sono piccoli, rossastri, raccolti in infiorescenze a pannocchia di forma cilindrica, portati all’ascella delle foglie dei rametti dell’anno precedente.
Il frutto è una piccola drupa sferica o ovoidale, di 4-5 mm di diametro, di colore rosso, tendente al nero nel corso della maturazione.
La fioritura ha luogo in primavera, da aprile a maggio. I frutti rossi sono ben visibili in piena estate e in autunno e maturano in inverno.
Il lentisco è una specie diffusa in tutto il bacino del Mediterraneo prevalentemente nelle regioni costiere, in pianura e in bassa collina. In genere non si spinge oltre i 400-600 metri. La zona fitoclimatica di vegetazione è il Lauretum. In Italia è diffuso in Liguria, nella penisola e nelle isole. Sul versante adriatico occidentale non si spinge oltre Ancona. In quello orientale risale molto più a Nord, arrivando a tutta la costa dell’Istria.
È una pianta eliofila, termofila e xerofila, resiste bene a condizioni prolungate di aridità, mentre teme le gelate. Non ha particolari esigenze pedologiche.
È uno degli arbusti più diffusi e rappresentativi dell’Oleo-ceratonion, spesso in associazione con l’olivastro e il mirto. Più sporadica è la sua presenza nella macchia mediterranea e nella gariga. Grazie alla sua frugalità e ad una discreta resistenza agli incendi è piuttosto frequente anche nei pascoli cespugliati e nelle aree più degradate residue della macchia.
Al lentisco vengono riconosciute proprietà pedogenetiche ed è considerata una specie miglioratrice nel terreno. Il terriccio presente sotto i cespugli di questa specie è considerato un buon substrato per il giardinaggio. Per questi motivi la specie è importante, dal punto ecologico, per il recupero e l’evoluzione di aree degradate.
Pur avendo perso gran parte della sua antica importanza, il lentisco è una specie che ha ancora una larga utilizzazione per molteplici scopi.
Olio di lentisco
In Sardegna l’olio di lentisco (oll’e stincu) è stato fino al XX secolo il grasso alimentare vegetale più consumato dopo l’olio d’oliva e dell’olio di olivastro. L’olio d’oliva di una certa qualità era infatti destinato alle mense dei ricchi e per le occasioni particolari, mentre gran parte dell’olio prodotto, essendo di scarsa qualità, era utilizzato prevalentemente per alimentare le lampade. L’olio di lentisco era forse apprezzato per le sue spiccate proprietà aromatiche, di gran lunga superiori a quelle dell’olio lampante, ma in ogni modo si trattava di un alimento destinato alle mense dei poveri, a cui si faceva largo ricorso in periodi di carestia e in occasioni di scarso raccolto dagli olivi e dagli olivastri.
La tradizione dell’olio di lentisco come grasso alimentare si è persa nella metà del XX secolo, allorché nel Secondo Dopoguerra si è avuta una maggiore diffusione prima dell’olio d’oliva, poi degli oli di semi. Si tratta di un olio con una resa bassa (8-13%), conseguentemente relativamente costoso, con una distribuzione di acidi grassi ( 50-60% acido oleico, 20-30% acido palmitico, 10-25% acido linoleico) molto simile a quella di decine di piante oleaginose con resa molto più alta. In seguito, l’olio di lentisco ha avuto rare utilizzazioni sporadiche come prodotto di nicchia o per scopi folcloristici. L’uso dei frantoi oleari per estrarre l’olio di lentisco è sconsigliabile, in quanto le proprietà organolettiche dell’olio d’oliva estratto in lavorazioni successive sono inquinate da quelle aromatiche del lentisco.
Il legname del lentisco è apprezzato per lavori di intarsio grazie al colore rosso venato. In passato veniva usato per produrre carbone vegetale e ancora oggi è apprezzato per alimentare i forni a legna delle pizzerie, in quanto la sua combustione permette di raggiungere alte temperature in tempi rapidi.
Foglie
Le foglie, ricche di tannini, venivano usate per la concia delle pelli. I rami sono usati come verde ornamentale. Tale uso massiccio attraverso tagli indiscriminati senza alcun controllo da parte degli organi preposti sta causando seri danni ai boschi dell’Albania della Tunisia e del sud Italia. Per ovviare a tale distruzione dell’habitat si è cominciato timidamente a coltivarlo (primi impianti nella zona di Latina).[senza fonte]
Resina
Mastice, ovvero resina del lentisco.
La resina del lentisco è detta mastice di Chio o mastic e in diverse lingue è indicata con il termine di mastice. Di colore giallo, veniva usata in passato come chewing gum anche per la sua azione benefica sul cavo orale (rassodante delle gengive e purificante dell’alito). È inoltre considerato antidiarroico. Ancora oggi, come per il passato con la resina, sciolta nella trementina purissima, si prepara una vernice per impieghi artistici (pittura a olio e/o a tempera) sia per “mesticare” colori sia per restauri neutri su dipinti antichi. Le sue caratteristiche ne consentono infatti l’asportazione senza danno alcuno.
Come mangiare il vanilia ipobrìchio (sottomarino vaniglia)
Sull’isola greca di Chio, che è il luogo di produzione della resina di maggior pregio, viene preparato un liquore aromatico derivato dalla resina, con funzioni digestive, molto apprezzato, il Mastìka. Inoltre, viene prodotto anche un dolce caramelloso noto come “sottomarino vaniglia” (βανίλια υποβρύχιο, vanília ipobríchio), così chiamato perché viene servito su un cucchiaino, immerso in un bicchiere di acqua fredda, da mangiare come fosse un lecca-lecca e reimmergere in acqua per farlo ammorbidire di nuovo.
In Sardegna, la resina viene usata nella produzione di un gin locale, il Giniu.
Gli impieghi attuali della resina vanno dalla profumeria all’odontotecnica (come componente di paste per le otturazioni e mastici per le dentiere). È anche impiegato come componente nella produzione della gomma da masticare e prende il nome di Mastice di Chios.
La resina si può estrarre praticando incisioni sul fusto e sui rami in piena estate e raccogliendola dopo che si è rappresa all’aria. Si sottopone a lavaggio per eliminare le impurità e si conserva dopo essiccazione in contenitori di legno.
Frutti
In passato i frutti venivano sottoposti a bollitura e a spremitura per estrarre un olio impiegato come combustibile per l’illuminazione e come succedaneo dell’olio d’oliva per l’alimentazione. Tuttora in Sardegna è utilizzato, anche se raramente, popolarmente e nella ristorazione.
Giardinaggio
Il lentisco si presta per essere impiegato come componente di giardini mediterranei e giardini rocciosi. Poiché resiste bene alle potature drastiche è adatto anche per la costituzione di siepi geometriche, dal momento che la ramificazione fitta, la vegetazione densa e le ridotte dimensioni delle foglioline si prestano a questo scopo.

Ritorna alle specie arbustive >>> Vai

Cisto villoso
Cisto Villoso o Cisto Rosa
Cistus incanus

 

Descrizione: pianta a portamento cespuglioso di modesto sviluppo, inferiore ad un metro di altezza, fittamente ramificata. Le foglie, che assomigliano vagamente a quelle della salvia per la superficie rugosa, con lamina lunga dai 2 ai 4 cm, sono ovali e ricoperte di peluria bianca molto evidente da cui deriva il nome; possono generare qualche difficoltà di distinzione ad un osservatore inesperto con il Cistus salvifolius. I fiori, assai belli, tra i più appariscenti della Macchia mediterranea, sono abbastanza grandi e vistosi, di 4-6 cm di diametro con petali rosei o rosso purpurei caratteristicamente spiegazzati. Il frutto è una capsula.
Distribuzione: come gli altri cisti è una pianta rustica, resistente a prolungate condizioni di siccità. Si tratta di una specie eliofila, che predilige cioè l’esposizione ai raggi solari, ma si adatta anche a condizioni di parziale ombreggiamento. All’Elba è frequente ai margini della Macchia mediterranea o nelle radure. Non costituisce, come nel caso delle garighe a dominanza di Cisto marino, associazioni vegetali in cui è prevalente rispetto alle altre specie. Un tempo veniva raccolto ed impiegato dalle donne per pulire stoviglie, forse sfruttando la fitta peluria che caratterizza non solo le foglie ma anche i giovani rami di questo cespuglio.

Ritorna alle specie arbustive >>> Vai

Cisto marino

Il cisto marino o cisto di Montpellier (Cistus monspeliensis L., 1753) è un arbusto appartenente alla famiglia delle Cistaceae tipico delle associazioni floristiche cespugliose o arbustive mediterranee.
Descrizione

La pianta ha il fusto peloso con portamento inizialmente eretto e poi decombente e cespuglioso. Alta da 30 a 120 cm, con corteccia bruna. Le foglie sono lineari-lanceolate, sessili, con margine revoluto, tomentose e vischiose al tatto, con forte e gradevole odore aromatico.

I fiori sono riuniti in piccoli racemi, hanno simmetria raggiata e diametro di 1,5-2 cm. Il calice è composto da cinque sepali liberi, disuguali. La corolla è composta da 5 petali liberi, di colore bianco, con una piccola macchia gialla alla base. L’androceo è composto da numerosi stami con filamenti brevi, inseriti sul ricettacolo. L’ovario è supero, sormontato da un breve stilo.

Il frutto è una capsula di forma ovale, contenente numerosi semi.
Biologia

Il cisto marino ha un ciclo vegetativo autunno-primaverile, con attività vegetativa intensa nel periodo primaverile, che culmina con la fioritura nei mesi di aprile-maggio.

Nel periodo estivo entra in riposo vegetativo a causa delle condizioni siccitose proibitive riprendendo l’attività solo con le piogge autunnali. Durante il riposo estivo l’habitus diventa tipicamente xerofitico, perdendo buona parte del fogliame. Per questo motivo la macchia a cisto ha una tonalità grigio-bruna in estate determinata dalla colorazione della corteccia.
Distribuzione e habitat

Il cisto marino è una tipica pianta mediterranea piuttosto comune nelle associazioni cespugliose degli ambienti mediterranei, specialmente in zone soleggiate e aride. Si adatta bene a condizioni pedologiche difficili, vegetando su suoli sterili, grossolani e dotati di scarsa potenza. Vegeta nella macchia mediterranea bassa, e sporadicamente nella gariga, spesso in prossimità delle zone costiere.

È il tipico rappresentante della macchia a cisto, associazione monofloristica o a larga prevalenza a cisto che si estende spesso su vaste superfici, indice di degradazione della vegetazione mediterranea. Ricopre facilmente le aree percorse da incendi in quanto i semi hanno la capacità di resistere alle alte temperature, permettendo alla specie una rapida colonizzazione dell’area.
Utilità
Dal Cistus monspeliensis (così come dal Cistus ladanifer e dal Cistus creticus) si estrae una resina chiamata ladano che è molto importante in profumeria dove è usata soprattutto come fissativo. Il cisto marino inoltre è fondamentale come pianta colonizzatrice di aree collinari degradate, in quanto rappresenta uno degli ultimi baluardi prima della desertificazione, prevenendo l’erosione dei suoli declivi percorsi da incendi. L’uso domestico invece è limitato a legna da ardere, utile soprattutto per avviare l’accensione. Come altre piante fortemente aromatiche, Cistus monspeliensis è rifiutato dagli animali.

Ritorna alle specie arbustive >>> Vai

Cisto femmina

Il cisto femmina (Cistus salviifolius L., 1753) è un arbusto appartenente alla famiglia delle Cistaceae, tipico della macchia mediterranea.
Caratteri botanici

La pianta ha un portamento cespuglioso poco sviluppata in altezza, fino 50-60 cm. Nel complesso ha un colore verde glauco per l’abbondante presenza di peli. Le foglie sono di colore verde chiaro, ovali o ellittiche, picciolate, tomentose e non collose al tatto, con margine intero e non revoluto. La lamina fogliare è lunga da 1 a 3 cm.

I fiori sono solitari e lungamente peduncolati, disposti all’ascella delle foglie, hanno simmetria raggiata e diametro di 4-5 cm. La corolla è composta da 5 petali liberi, di colore bianco con sfumature gialle alla base. L’androceo è composto da numerosi stami con filamenti brevi e antere gialle. L’ovario è supero con stimma quasi sessile.

Il frutto è una capsula contenente più semi.
Biologia

Al pari degli altri cisti è una pianta rustica, resistente a prolungate condizioni di siccità, poco esigente per quanto riguarda il pH del terreno. Pianta eliofila si adatta anche a condizioni di parziale ombreggiamento, pertanto può ritrovarsi anche in foreste a volta aperta. Fiorisce da aprile a maggio e fruttifica entro l’inizio dell’estate. La specie resiste agli incendi in quanto è in grado di rinnovare la vegetazione con la germinazione dei semi.
Distribuzione e habitat

Il cisto femmina vegeta in un areale mediterraneo, prevalentemente nelle leccete, nella macchia mediterranea e nella gariga estendendosi fino al Nord Italia, dove può essere rinvenuto sporadicamente in siti riparati o esposti presso i grandi laghi, sui Colli Euganei, ai piedi dell’Appennino in Emilia-Romagna e in Istria. È citata la sua presenza anche in Piemonte, nella Val di Susa e nelle Langhe.

Tipico arbusto dello strato inferiore nelle associazioni forestali o a macchia, non forma associazioni monofloristiche ma può trovarsi consociato con altre specie dello stesso genere nella macchia a cisto.

Utilizzi

Pianta di scarso interesse ai fini pratici, non ha alcuna utilizzazione se non sporadicamente come arbusto ornamentale. Si propaga facilmente per seme o per talea.

 

Ritorna alle specie arbustive >>> Vai

Alloro

L’alloro (Laurus nobilis L., 1753) è una pianta aromatica e pianta officinale appartenente alla famiglia Lauraceae e al genere laurus.
Descrizione
Si presenta, poiché spesso sottoposto a potatura, in forma di arbusto di varie dimensioni ma è un vero e proprio albero alto fino a 10 m, con rami sottili e glabri che formano una densa corona piramidale.

Il legno della pianta è aromatico ed emana il tipico profumo delle foglie. Il fusto è eretto, la corteccia verde nerastra.

Le foglie, ovate, sono verde scuro, coriacee, lucide nella pagina superiore e opache in quella inferiore, sono inoltre molto profumate.

L’alloro è una pianta dioica, cioè porta fiori, unisessuali, in due piante diverse, una con i fiori maschili e una con i fiori femminili (che portano poi i frutti). L’unisessualità è dovuta a fenomeni evolutivi di aborto a partire da fiori inizialmente completi. Nei fiori femminili infatti sono presenti 2-4 staminoidi (cioè residui di stami) non funzionali, analogo fenomeno accade per i maschili, che presentano parti femminili atrofiche (non funzionali ed atrofizzate). I fiori, di colore giallo chiaro, riuniti a formare una infiorescenza ad ombrella, compaiono a primavera, generalmente in marzo-aprile.

I frutti sono drupe nere e lucide (quando mature) con un solo seme. Le bacche maturano a ottobre-novembre. L’impollinazione è principalmente entomofila, ovvero ad opera di insetti. L’alloro è un arbusto sempreverde e latifoglia.
Distribuzione e habitat.
Diffuso lungo le zone costiere settentrionali del Mar Mediterraneo, dalla Spagna alla Grecia e nell’Asia Minore, passando per la Svizzera e l’Italia.

In Italia cresce spontaneamente nelle zone centro-meridionali e lungo le coste, mentre nelle regioni settentrionali è coltivato. La diffusione e l’uso ampio che se ne fa nella cucina siciliana hanno portato l’alloro ad essere inserito nella lista dei prodotti agroalimentari tradizionali italiani (P.A.T) del Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali (Mipaaf) come prodotto tipico siciliano.

L’ampia diffusione spontanea in condizioni naturali ha fatto individuare uno specifico tipo di macchia: la macchia ad alloro o Lauretum. Si tratta della forma spontanea di associazione vegetale che si stabilisce nelle zone meno aride dell’area occupata in generale dalla macchia.
Coltivazione

L’alloro è una pianta rustica, cresce bene in tutti i terreni e può essere coltivato in qualsiasi tipo di orto.

La diffusione avviene molto facilmente per seme (i semi sono diffusi dagli uccelli che predano i frutti), la moltiplicazione avviene molto facilmente in natura per polloni, fatto che produce agevolmente dei piccoli boschi prodotti da un solo individuo (cioè dei cloni dell’albero di partenza), oppure artificialmente per talea.
Usi

Si utilizzano le foglie e se ne possono fare vari usi: in cucina, per aromatizzare carni e pesci, come rimedio casalingo per allontanare le tarme dagli armadi (ottimo e più profumato sostituto della canfora), per preparare decotti rinfrescanti e dalle qualità digestive o pediluvi, o trattato con alcool per ricavarne un profumato e aromatico liquore dalle proprietà digestive, stimolanti, antisettiche ed è utile contro tosse e bronchite.

Dalle bacche si può ricavare un olio aromatico, l’olio laurino e con proprietà medicinali, ingrediente peculiare dell’antichissimo sapone di Aleppo. Veniva inoltre utilizzato per preservare libri e pergamene e per preparare le classiche coroncine d’alloro.

A marzo, quando fiorisce l’alloro, soprattutto nei climi temperati freddi dove non ci sono altre fioriture rilevanti, è un’importante fonte di nettare e polline per le api.

Ritorna alle specie arbustive >>> Vai

Corbezzolo

Il corbezzolo (Arbutus unedo L., 1753), che viene chiamato anche albatro o, poeticamente, arbuto, è un albero da frutto appartenente alla famiglia delle Ericaceae e al genere Arbutus. È diffuso nei paesi del Mediterraneo occidentale e sulle coste meridionali dell’Irlanda. I frutti vengono chiamati corbezzole o talvolta albatre.
Uno stesso arbusto ospita contemporaneamente fiori e frutti maturi, per il particolare ciclo di maturazione. Questo, insieme al fatto di essere sempreverde, lo rende particolarmente ornamentale, per la presenza sull’albero di tre vivaci colori: il rosso dei frutti, il bianco dei fiori e il verde delle foglie. Dato che questi sono i colori della bandiera d’Italia, il corbezzolo è un simbolo patrio italiano.
Etimologia
Il nome corbezzolo deriva dal latino volgare corbitjus, incrocio del lemma mediterraneo (preindoeuropeo) corba, sopravvissuto nell’Italia settentrionale, e del nome del genere dal latino arbutus, derivato da arbuteus, anch’esso lemma di origine mediterranea (preindoeuropeo).
Il nome scientifico della specie, unedo, deriva da Plinio il Vecchio che, in contrasto con l’apprezzamento che in genere riscuote il sapore del frutto, sosteneva che esso fosse insipido e che quindi dopo averne mangiato uno (unum = uno e edo = mangio) non veniva voglia di mangiarne più.
Dal nome greco del corbezzolo (κόμαρος – pron. kòmaros) derivano alcuni nomi dialettali dei frutti (Marche (cocomeri), Calabria (cacumbari)), e anche il nome del Monte Cònero, il promontorio sulle cui pendici sorge Ancona, e la cui vegetazione è appunto ricca di arbusti di corbezzolo.
Descrizione
Il corbezzolo è longevo e può diventare plurisecolare, con crescita rapida. È una delle specie mediterranee che meglio si adatta agli incendi, in quanto reagisce vigorosamente al passaggio del fuoco emettendo nuovi polloni, soprattutto su terreni acidi e sub-acidi
Portamento
Si presenta come un cespuglio o un piccolo albero, che può raggiungere un’altezza di 10 m. È una pianta latifoglia e sempreverde; inoltre è molto ramificato, con rami giovani di colore rossastro.
Foglie
Le foglie hanno le caratteristiche tipiche delle piante sclerofille. Hanno forma ovale lanceolata, sono larghe 2-4 centimetri e lunghe 10-12 centimetri, hanno margine dentellato. Si trovano addensate all’apice dei rami e dotate di un picciolo corto. La lamina è coriacea e si presenta lucida e di colore verde-scuro superiormente, mentre inferiormente è più chiara.
Fiori
I fiori sono riuniti in pannocchie pendule che ne contengono tra 15 e 20. La corolla è di colore bianco-giallastro o rosea, urceolata e con 5 piccoli denti ripiegati verso l’esterno larghi 5-8 millimetri e lunghi 6-10 millimetri. Le antere sono di colore rosso scuro intenso con due cornetti gialli. I fiori sono ricchi di nettare e per questo motivo intensamente visitati dalle api, se il clima non è già diventato troppo freddo. Dai fiori di corbezzolo si ricava dunque l’ultimo miele della stagione, pregiato per il suo sapore particolare, amarognolo e aromatico. Questo miele è prezioso anche perché non sempre le api sono ancora attive al momento della fioritura e non tutti gli anni è possibile produrlo, essendo la fioritura in ottobre-novembre.
Frutti
Il frutto è una bacca sferica di circa 2 centimetri, carnosa e rossa a maturità, ricoperta di tubercoli abbastanza rigidi spessi qualche millimetro; i frutti maturi hanno un buon sapore, che non tutti, però, apprezzano. È possibile utilizzare i frutti per marmellate casalinghe (confetture) e altre preparazioni.
I frutti maturano in ottobre-dicembre, nell’anno successivo rispetto alla fioritura che dà loro origine, hanno una maturazione scalare e possono essere presenti sullo stesso arbusto bacche rosse mature e più chiare ancora acerbe.
Legno
Il legno di corbezzolo è un ottimo combustibile per il riscaldamento casalingo utilizzato su camini e stufe, ma il suo utilizzo maggiore è per gli arrosti grazie alle sue caratteristiche aromatiche. Il corbezzolo è un legno molto robusto e pesante; dopo circa 60 gg dal taglio può perdere fino al 40% del suo peso.
Distribuzione e habitat
È una tipica essenza della macchia mediterranea, presente sia in Europa meridionale che nel Nordafrica; è ugualmente molto diffusa sulle coste atlantiche del Portogallo e della Spagna e nel sud dell’Irlanda. Il corbezzolo è una pianta xerofila, cresce in ambienti semiaridi, vegetando tra altri cespugli e nei boschi di leccio. Predilige terreni silicei e cresce ad altitudini comprese tra 0 e 800 metri. In Italia il suo areale è continuo su tutte le coste liguri, sarde, siciliane, tirreniche e in quelle adriatiche da sud fino ad Ancona.
La farfalla del corbezzolo (Charaxes jasius), in fase larvale, si nutre esclusivamente delle foglie della pianta del corbezzolo, mentre da adulta predilige i frutti maturi, di cui succhia i liquidi zuccherini; da queste abitudini deriva il suo nome.
Usi
Frutti
I frutti sono eduli, dolci e molto apprezzati. Hanno una maturazione che si conclude a ottobre-dicembre dell’anno successivo, quando si hanno i nuovi fiori. Si possono consumare direttamente, conservarli sotto spirito, utilizzarli per preparare confetture e mostarde, cuocerli nello zucchero per caramellarli. Nelle Marche, e specificamente nella zona del promontorio di Monte Conero, una secolare tradizione voleva che gli abitanti della zona accorressero nel giorno dei santi Simone e Giuda (28 ottobre) nelle selve per cibarsi abbondantemente dei frutti del corbezzolo incoronandosi dei rami della pianta, perpetuando così un rito bacchico rivisitato in chiave cristiana. Oggigiorno la festa del corbezzolo non è più celebrata ufficialmente, ma gli abitanti della zona del Conero amano ancora recarsi nei boschi del promontorio per raccogliere i corbezzoli durante le belle giornate autunnali.
Vino di corbezzolo
Con la fermentazione dei frutti si ottiene il “vino di corbezzolo”, a bassa gradazione alcolica e leggermente frizzante in uso in Corsica, Algeria e nella zona del promontorio del Conero, dove è detto vinetto.
Acquavite
Con la distillazione dei frutti schiacciati si ottiene invece un’acquavite, in uso specialmente in Sardegna.
Liquore
Facendo macerare i frutti per 10-30 giorni in soluzione alcolica se ne ottiene un delicato liquore. Questo liquore, di produzione prevalentemente artigianale è detto in Portogallo Aguardente de Medronhos, mentre nella zona del promontorio del Conero è chiamato arbuto del Monte.
Miele
È stato già citato, nel paragrafo riguardante i fiori, il pregiato miele di corbezzolo, perché è una buona pianta mellifera.
Uso ornamentale
La pianta viene utilizzata a scopo ornamentale in parchi e giardini per il colore rosso intenso dei propri frutti presenti sulla pianta contemporaneamente ai bei grappoli di fiori bianchi ed anche per il denso e lucido fogliame.

Ritorna alle specie arbustive >>> Vai

Mirto

Il mirto (Myrtus communis L., 1753) è una pianta aromatica appartenente alla famiglia Myrtaceae e al genere Myrtus. È tipico della macchia mediterranea, viene chiamato anche mortella.
Il mirto ha portamento di arbusto o cespuglio, alto tra 0,5-3 m, molto ramificato ma rimane fitto; in esemplari vetusti arriva a 4-5 m; è una latifoglia sempreverde, ha un accrescimento molto lento e longevo e può diventare plurisecolare.

La corteccia, rossiccia nei rami giovani, col tempo assume un colore grigiastro. Ha foglie opposte, ovali-acute, coriacee, glabre e lucide, di colore verde-scuro superiormente, a margine intero, con molti punti traslucidi in corrispondenza delle glandole aromatiche.

I fiori sono solitari e ascellari, profumati, lungamente peduncolati, di colore bianco o roseo. Hanno simmetria raggiata, con calice gamosepalo persistente e corolla dialipetala. L’androceo è composto da numerosi stami ben evidenti per i lunghi filamenti. L’ovario è infero, suddiviso in 2-3 logge, terminante con uno stilo semplice, e un piccolo stimma. La fioritura, abbondante, avviene in tarda primavera, da maggio a giugno; un evento piuttosto frequente è la seconda fioritura che si può verificare in tarda estate, da agosto a settembre e, con autunni caldi anche in ottobre. Il fenomeno è dovuto principalmente a fattori genetici.

I frutti sono delle bacche, globoso-ovoidali di colore nero-azzurrastro, rosso-scuro o più raramente biancastre, con numerosi semi reniformi. Maturano da novembre a gennaio persistendo per un lungo periodo sulla pianta.
Distribuzione e habitat
Fiori

È una specie spontanea delle regioni mediterranee, comune nella macchia mediterranea. In Sardegna e Corsica è un comune arbusto della macchia mediterranea bassa, tipica delle associazioni fitoclimatiche xerofile dell’Oleo-ceratonion. Meno frequente è invece la presenza del mirto nella macchia alta.
Esigenze e adattamento
Il mirto è una pianta rustica ma teme il freddo intenso, si adatta abbastanza ai terreni poveri e siccitosi ma trae vantaggio sia dagli apporti idrici estivi sia dalla disponibilità d’azoto manifestando in condizioni favorevoli uno spiccato rigoglio vegetativo e un’abbondante produzione di fiori e frutti. Vegeta preferibilmente nei suoli a reazione acida o neutra, in particolare quelli a matrice granitica, mentre soffre i terreni a matrice calcarea. È un arbusto sclerofilo e xerofilo.
Propagazione

Il mirto può essere riprodotto per talea o per seme.

La riproduzione è utile per clonare ecotipi o varietà di particolare pregio da utilizzare in mirteti intensivi, perché consente di ottenere piante vigorose e precoci, in grado di fruttificare già in fitocella dopo un anno. Per ottenere percentuali di radicazione accettabili è indispensabile ricorrere a tecniche che incrementino il potere rizogeno, come il riscaldamento basale e il trattamento con fitoregolatori rizogeni, e rallentino l’appassimento delle talee, come la nebulizzazione.

La riproduzione per seme, per la sua semplicità e per i costi bassissimi, è consigliata per un’attività amatoriale da eseguire in ambito domestico. Le piante ottenute da seme sono meno vigorose e difficilmente entrano in produzione prima dei quattro anni. La semina va fatta nel periodo di maturazione delle bacche, nei mesi di dicembre-gennaio, in quanto i semi perdono ben presto il potere germinativo. Per realizzare un piccolo semenzaio si può utilizzare una cassetta da riempire con terriccio. Si sbriciolano le bacche semiappassite, distribuendo uniformemente il seme con una densità di 3-4 semi per centimetro quadrato e ricoprendolo con uno strato leggero di terriccio, dopo di che ci si deve preoccupare di irrigare frequentemente e moderatamente. La cassetta va mantenuta in un ambiente riparato, all’aperto nelle regioni a inverno mite, in serra nelle zone a inverno rigido. Le piantine vanno trapiantate in vasetti o in fitocelle della capacità di mezzo litro quando hanno raggiunto un’altezza di 4–6 cm.
Tecnica colturale

Il liquore di mirto è un prodotto che fino agli anni novanta ha interessato un mercato di nicchia a livello regionale, ma successivamente l’attività dell’industria liquoristica ha subito una notevole espansione promuovendo il prodotto nel mercato nazionale. La domanda di materia prima, tradizionalmente soddisfatta dai raccoglitori stagionali nella macchia mediterranea, ha portato a una notevole pressione antropica sulla vegetazione spontanea, che ormai non è più in grado di sostenere un’attività su larga scala.

A partire dalla metà degli anni novanta, pertanto, si sta promuovendo in Sardegna la coltivazione del mirto in impianti specializzati. La tecnica colturale è in piena fase di evoluzione in quanto è ancora oggetto di recente ricerca in diversi suoi ambiti, soprattutto in relazione alla meccanizzazione. Nei primi anni del millennio sono già emersi i primi indirizzi, applicati nei campi sperimentali e nei progetti pilota.

L’impianto del mirteto si esegue con gli stessi criteri applicati nella frutticoltura e nella viticoltura. Il terreno va preparato con lo scasso e la superficie sistemata con le lavorazioni complementari, in occasione delle quali si può valutare l’opportunità di una concimazione di fondo su terreni particolarmente poveri.
Arbusto in piena fioritura di circa 15 anni d’età, nato spontaneamente a ridosso di un rudere. Il considerevole vigore di questa pianta (quasi 3 metri d’altezza) è favorito dalle irrigazioni di soccorso estive e dall’esposizione a sud-est, protetta dal maestrale

Il sesto d’impianto più adatto per la meccanizzazione della coltura è di 1 x 3-3,5 metri, con un investimento di circa 3 000 piante a ettaro. Le piante, omogenee per età e cultivar, vanno messe a dimora in autunno o al massimo entro l’inizio della primavera per facilitare l’affrancamento. Si possono impiegare anche piante di un anno d’età provenienti da un vivaio, in quanto in grado di fornire una prima produzione già al secondo anno.

Il sistema d’allevamento più vicino al portamento della pianta è la forma libera a cespuglio. Con questo sistema in pochi anni le piante formano una siepe continua che richiede pochi interventi di potatura. Le sperimentazioni condotte dalla Facoltà di Agraria dell’Università di Sassari hanno però individuato nell’alberello una forma d’allevamento più adatta alla meccanizzazione della raccolta. Con questo sistema le piante sono costituite da un fusto alto circa 50 cm con chioma libera. In questo caso sono richiesti sistematici interventi di potatura più drastici per correggere il naturale portamento cespuglioso della pianta e l’allestimento di un sistema di sostegno basato su pali e fili. Per quanto riguarda la potatura di produzione, ancora non esiste una casistica sufficientemente collaudata, tuttavia il comportamento naturale del mirto può dare le prime indicazioni. Il mirto fruttifica sui rametti dell’anno, pertanto la potatura dovrebbe limitarsi a interventi di contenimento dello sviluppo e di ringiovanimento, oltre alla rimozione dei nuovi getti basali nel sistema ad alberello.

Per la sua rusticità e la capacità di competizione il mirto richiede per lo più il controllo delle infestanti con lavorazioni superficiali nell’interfila, qualora si adotti un sistema d’allevamento a cespuglio, e sulla fila nei primi anni e soprattutto con l’allevamento ad alberello. In caso di coltura in asciutto si opera secondo i criteri dell’aridocoltura con lavorazioni più profonde nell’interfila per aumentare la capacità d’invaso.

Il mirto risponde positivamente soprattutto alla concimazione azotata in quanto la produzione è potenzialmente correlata allo sviluppo vegetativo primaverile. Gli interventi vanno pertanto eseguiti in epoca primaverile per incrementare il rigoglio vegetativo. La concimazione azotata e quella potassica diventano indispensabili per garantire un buon livello nutrizionale e contenere eventuali fenomeni di alternanza qualora si provveda ad asportare i rami in fase di raccolta.

L’irrigazione è indispensabile per garantire buone rese. La specie resiste bene a condizioni di siccità prolungata e potrebbe essere coltivata anche in asciutto, ma le rese sono piuttosto basse. Le dimensioni delle bacche inoltre sono piuttosto piccole e rendono proibitiva la raccolta con la brucatura o la pettinatura. Tre o quattro interventi irrigui di soccorso nell’arco della stagione estiva possono migliorare sensibilmente lo stato nutrizionale delle piante e di conseguenza le rese. I migliori risultati si ottengono naturalmente con irrigazioni più frequenti adottando sistemi di microirrigazione con turni di 10-15 giorni secondo la disponibilità e il tipo di terreno. I volumi stagionali ordinari possono probabilmente oscillare dai 1 000 ai 3 000 metri cubi a ettaro.
Usi
Per il suo contenuto in olio essenziale (mirtolo, contenente mirtenolo e geraniolo e altri principi attivi minori), tannini e resine, è un’interessante pianta dalle proprietà aromatiche e officinali. Al mirto sono attribuite proprietà balsamiche, antinfiammatorie, astringenti, leggermente antisettiche, pertanto trova impiego in campo erboristico e farmaceutico per la cura di affezioni a carico dell’apparato digerente e del sistema respiratorio. Dalla distillazione delle foglie e dei fiori si ottiene una lozione tonica per uso eudermico. La resa in olio essenziale della distillazione del mirto è alquanto bassa.

Il prodotto più importante, dal punto di vista quantitativo, è rappresentato dalle bacche, utilizzate per la preparazione del liquore di mirto propriamente detto, ottenuto per infusione alcolica delle bacche attraverso macerazione o corrente di vapore. Un liquore di minore diffusione è il Mirto Bianco, ottenuto per infusione idroalcolica dei giovani germogli, erroneamente confuso con una variante del liquore di mirto propriamente detto ottenuto per infusione delle bacche di varietà a frutto non pigmentato. Il prezzo di mercato delle bacche si aggira intorno ai 1,8-2 euro/kg.

Nella tradizione gastronomica sarda il mirto è un importante condimento per aromatizzare alcune carni: i rametti sono tradizionalmente usati per aromatizzare il maialetto arrosto, il pollame arrosto o bollito, il manzo e soprattutto sa taccula o grivia, un semplice ma ricercato piatto a base di uccellagione bollita (tordi, merli, storni). L’uso del mirto come aroma per le carni non è comunque una prerogativa esclusiva dei sardi: la letteratura nel Web riporta ad esempio riferimenti anche per altre cucine regionali e per la cucina spagnola. Assai più raro ma non meno gustoso è l’utilizzo del mirto come condimento per un risotto.
Giardinaggio

L’abbondante e suggestiva fioritura in tarda primavera o inizio estate o la presenza per lungo tempo delle bacche (di colore nero bluastro o rossastro o rosso violaceo) nel periodo autunnale rendono questa pianta adatta per ravvivare i colori del giardino come arbusto isolato, allevato a cespuglio o ad alberello. L’utilizzazione più interessante del mirto come pianta ornamentale è tuttavia la siepe: in condizioni ambientali favorevoli è in grado di formare una fitta siepe medio alta in pochi anni. Le foglie, relativamente piccole, e la notevole capacità di ricaccio vegetativo lo rendono adatto a formare siepi modellate geometricamente con la tosatura, ma può anche essere allevato a forma libera e sfruttare in questo caso lo spettacolo suggestivo offerto prima dalla fioritura poi dalla fruttificazione.

Ritorna alle specie arbustive >>> Vai

Rosmarino

Il rosmarino (Salvia rosmarinus Schleid.) è una pianta perenne aromatica appartenente alla famiglia delle Lamiaceae.

Originario dell’area mediterranea dove cresce nelle zone litoranee, garighe, macchia mediterranea, dirupi sassosi e assolati dell’entroterra, dal livello del mare fino alla zona collinare, ma si è acclimatato anche nella zona dei laghi prealpini e nella Pianura Padana nei luoghi sassosi e collinari.
Descrizione

Pianta arbustiva sempreverde che raggiunge altezze di 50–300 cm, con radici profonde, fibrose e resistenti, ancoranti; ha fusti legnosi di colore marrone chiaro, prostrati ascendenti o eretti, molto ramificati, i giovani rami pelosi di colore grigio-verde sono a sezione quadrangolare.

Le foglie, persistenti e coriacee, sono lunghe 2–3 cm e larghe 1–3 mm, sessili, opposte, lineari-lanceolate addensate numerosissime sui rametti; di colore verde cupo lucente sulla pagina superiore e biancastre su quella inferiore per la presenza di peluria bianca; hanno i margini leggermente revoluti; ricche di ghiandole oleifere.

I fiori ermafroditi sono sessili e piccoli, riuniti in brevi grappoli all’ascella di foglie fiorifere sovrapposte, formanti lunghi spicastri allungati, bratteati e fogliosi, con fioritura da marzo ad ottobre, nelle posizioni più riparate ad intermittenza tutto l’anno.
Ogni fiore possiede un calice campanulato, tomentoso con labbro superiore tridentato e quello inferiore bifido; la corolla di colore lilla-indaco, azzurro-violacea o, più raramente, bianca o azzurro pallido, è bilabiata con un leggero rigonfiamento in corrispondenza della fauce; il labbro superiore è bilobo, quello inferiore trilobo, con il lobo mediano più grande di quelli laterali ed a forma di cucchiaio con il margine ondulato; gli stami sono solo due con filamenti muniti di un piccolo dente alla base ed inseriti in corrispondenza della fauce della corolla; l’ovario è unico, supero e quadripartito.

L’impollinazione è entomofila, cioè è mediata dagli insetti pronubi, tra cui l’ape domestica, che ne raccoglie il polline e l’abbondante nettare, da cui si ricava un ottimo miele.

I frutti sono tetracheni, con acheni liberi, oblunghi e lisci, di colore brunastro.
Coltivazione
I fiori

Richiede posizione soleggiata al riparo dai venti gelidi; terreno leggero sabbioso-torboso ben drenato; poco resistente ai climi rigidi e prolungati.

Si può coltivare in vaso sui terrazzi, avendo cura di porre dei cocci sul fondo per un drenaggio ottimale, rinvasando ogni 2-3 anni, usando terriccio universale miscelato a sabbia, concimazioni mensili con fertilizzante liquido miscelato all’acqua delle annaffiature, che saranno controllate e diradate d’inverno.

In primavera si rinnova l’impianto cimando i getti principali, per ottenere un aspetto cespuglioso, senza dover ricorrere ad interventi di potatura.

Si moltiplica facilmente per talea apicale dei nuovi getti in primavera prelevate dai germogli basali e dalle piante più vigorose piantate per almeno 2/3 della loro lunghezza in un miscuglio di torba e sabbia; oppure si semina in aprile-maggio, si trapianta in settembre o nella primavera successiva; oppure si moltiplica per divisione della pianta in primavera.

Per effetto dei meccanismi di difesa dal caldo e dall’arido (tipici della macchia mediterranea), la pianta presenta, se il clima è sufficientemente caldo ed arido in estate e tiepido in inverno, il fenomeno della estivazione cioè la pianta arresta quasi completamente la vegetazione in estate, mentre ha il rigoglio di vegetazione e le fasi vitali (fioritura e fruttificazione) rispettivamente in tardo autunno o in inverno, ed in primavera. In climi più freschi ed umidi le fasi di vegetazione possono essere spostate verso l’estate. Comunque in estate, specie se calda, la pianta tende sempre ad essere in una fase di riposo.
Usi

Oltre agli usi medicinali illustrati più sotto il rosmarino viene utilizzato:

Come pianta ornamentale nei giardini, per bordure, aiuole e macchie arbustive, o per la coltivazione in vaso su terrazzi
Nell’industria cosmetica come shampoo per ravvivare il colore dei capelli o come astringente nelle lozioni; nelle pomate e linimenti per le proprietà toniche. In profumeria, l’olio essenziale ricavato dalle foglie, viene utilizzato per la preparazione di colonie, come l’Acqua d’Ungheria
Come insettifugo o deodorante nelle abitazioni (se ne bruciano i rametti secchi)
Per la produzione di un miele monoflorale in quanto i fiori sono particolarmente bottinati dalle api, perché piante mellifere
In campo alimentare, sotto forma di estratto, viene usato come additivo dotato di proprietà antiossidante ed etichettato con la sigla E392. Se ne conoscono 5 tipi designato con acronimi:

AR: estratto ottenuto da un estratto alcolico di rosmarino parzialmente aromatizzato;
ARD: estratto ottenuto da un estratto alcolico di rosmarino aromatizzato;
D74: estratto ottenuto da foglie secche di rosmarino per estrazione con anidride carbonica supercritica;
F62: estratto ottenuto da foglie secche di rosmarino per estrazione con acetone;
RES: estratto ottenuto da per estrazione con esano ed acetone e poi decolorato e dearomatizzato.

Birra gruit
In europa settentrionale si usava per fare la birra gruit con achillea millefoglie e mirto di palude.

 

Ritorna alle specie arbustive >>> Vai

Cappero

Il cappero (Capparis spinosa L., 1753) è un piccolo arbusto o suffrutice ramificato a portamento prostrato-ricadente. Della pianta si consumano i boccioli, detti capperi, e più raramente i frutti, noti come cucunci. Entrambi si conservano sott’olio, sotto aceto o sotto sale.
Caratteri botanici

Il portamento è cespitoso, con fusto subito ramificato e rami lignificati solo nella parte basale, spesso molto lunghi, dapprima eretti, poi striscianti o ricadenti.

Le foglie sono alterne e picciolate, a lamina subrotonda e a margine intero, glabre o finemente pelose, di consistenza carnosa. La forma della lamina è ovata, il margine è liscio, le nervature sono pennate e non è una foglia composta. Il nome dato alla specie è dovuto alla presenza, alla base del picciolo, di due stipole trasformate in spine. Nella varietà inermis, la più comune, le stipole sono erbacee e cadono precocemente.

I fiori sono solitari, ascellari, lungamente peduncolati, vistosi. Calice e corolla sono tetrameri, composti rispettivamente da 4 sepali verdi e 4 petali bianchi. L’androceo è composto da numerosi stami rosso-violacei, provvisti di filamenti molto lunghi. L’ovario è supero, con stimma sessile.

Il frutto è una capsula oblunga e verde, a forma di fuso, portata da un peduncolo di 2–3 cm, fusiforme e carnosa, con polpa di colore rosaceo. Contiene numerosi semi reniformi, neri o giallastri, di 1–2 mm di dimensioni. A maturità si apre con una fessura longitudinale. Comunemente i frutti sono chiamati cucunci o cocunci.
Tassonomia

Secondo il sistema Cronquist la famiglia delle Capparaceae appartiene all’ordine dei Capparales mentre l’Angiosperm Phylogeny Group la assegna all’ordine dei Brassicales.
Ciclo fenologico

La pianta entra in riposo durante i mesi freddi. In piena primavera riprende l’attività vegetativa e fiorisce nei mesi di maggio e giugno. La fioritura si protrae durante l’estate in condizioni di umidità favorevoli e in tarda estate riprende d’intensità per diminuire progressivamente al sopraggiungere dell’autunno.
Distribuzione

Il cappero è coltivato fin dall’antichità ed è diffuso in tutto il bacino del Mediterraneo. È spontaneo solo su substrati calcarei: nel suo ambiente naturale cresce sulle rupi calcaree, nelle falesie, su vecchie mura, formando spesso cespi con rami ricadenti lunghi anche diversi metri. È una pianta eliofila e xerofila con esigenze idriche limitatissime.
Note colturali

Pur essendo una pianta rupicola, il cappero trae vantaggio dalla coltivazione in piena terra e irrigato moderatamente ha uno sviluppo più rigoglioso, producendo fiori da maggio a ottobre. Si propaga per seme o preferibilmente per talee. La talea si esegue in estate, prelevando un pezzo di 7–10 cm di un ramo legnoso di 2-3 anni d’età, quindi lo si pone in una cassetta riempita di torba e sabbia.

Per favorire la radicazione è consigliato l’uso di polveri radicanti. Formatesi le radici, si prelevano le piantine e si invasano singolarmente in vasetti di circa 10 cm di diametro. La propagazione per seme è difficoltosa dato che la germinazione dei semi è buona solo se i semi sono seminati immediatamente dalla raccolta dai frutti, è invece molto difficoltosa (germinabilità del 5 – 10%) quando entrano in dormienza (cioè si essiccano), la preparazione con semi in acqua calda e poi in ammollo per qualche giorno aumenta la germinabilità. La possibilità di germinazione aumenta anche qualora la semina venga eseguita nei mesi invernali (dicembre – gennaio).

Si semina in cassette, riempite di torba e sabbia, lasciate all’aperto nel periodo estivo e riparate in autunno–inverno. Nella primavera successiva si può trapiantare la nuova pianta direttamente nel terreno o singolarmente in un vaso. La semina può avvenire anche direttamente nelle fessure di muri a secco ben esposti al sole in autunno. Occorre però inserire i semi pressati in una manciata di muschio che proteggerà il seme durante l’inverno e lo terrà umido, altra soluzione: inserire dei semi dentro un fico maturo, o in una zolletta di fango pressato inserendo poi il tutto nella fessura del muro. Le piantine nasceranno verso maggio-giugno.

Ritorna alle specie arbustive >>> Vai

Palma nana

La palma nana (Chamaerops humilis L., 1753), comunemente nota anche come palma di San Pietro, è una pianta della famiglia delle Arecaceae, unica specie del genere Chamaerops. È una specie tipica della macchia mediterranea.

Il nome del genere fa riferimento alla morfologia della pianta (dal greco χαμαί chamái, «a terra» e ῥώψ rhṓps, «cespuglio»). I greci la chiamavano phoenix chamaeriphes, che significa letteralmente «palma gettata per terra».
Descrizione

Si presenta come un cespuglio sempreverde che raggiunge normalmente altezze sino a 2 metri, ma può raggiungere l’altezza di alcuni metri.
Fusto

Il fusto è di diametro variabile (10–15 cm), ricoperto da un tessuto fibroso di colore bruno. Generalmente è corto, visibile solo negli esemplari vetusti. È ricoperto in basso dai residui squamosi delle foglie morte (con un diametro complessivo fino a 25–30 cm).
Corteccia

La corteccia è di colore marrone scuro o rossastra.
Foglie

Le foglie sono larghe, robuste, a ventaglio, rigide ed erette, sostenute da lunghi piccioli spinosi riuniti a ciuffi sulla sommità del fusto; di colore verde sulla pagina superiore e quasi bianco sulla pagina inferiore.
Fiori

I fiori sono portati da infiorescenze a pannocchia, corte e ramificate, di colore giallo, con peduncoli brevi. È usualmente (ma non invariabilmente) una pianta dioica con fiori maschili e femminili su piante separate. I fiori maschili hanno 6–9 stami che sovrastano un calice carnoso, i fiori femminili racchiudono 3 carpelli apocarpici carnosi.
Frutti

I frutti sono drupe, globose o oblunghe, di lunghezza variabile (12–45 mm) con polpa assai fibrosa e leggermente zuccherina, di colore verde nelle prime fasi, successivamente giallo-rossiccio, marroni a maturità.
Distribuzione e habitat

È diffusa in tutto il Mediterraneo occidentale dal sud del Portogallo a Malta (in Europa) e dal Marocco alla Libia (in Africa).

In Italia si trova lungo tutta la fascia costiera occidentale, dalla Sicilia alla Toscana centro-meridionale (promontorio di Piombino), comprese alcune isole del Mar Tirreno (Capraia, Elba, Cerboli, Palmaiola, Palmarola), mentre più a nord è conosciuta solo per alcuni nuclei relitti nel territorio del Parco di Portofino (Liguria); è comune soprattutto in Sicilia, Calabria e Sardegna, regioni in cui si può allontanare di diversi chilometri dalle coste o risalire le prime pendici dei rilievi montuosi.

È un tipico elemento della fascia più termofila della macchia mediterranea. È diffusa soprattutto in zone calde, vicino alle coste; predilige esposizioni soleggiate e teme il freddo intenso. In ambiente naturale cresce principalmente su terreni rocciosi o sabbiosi.
Chamaerops humilis var. argentea
Atlante, Marocco
Varietà

Le seguenti varietà si differenziano a seconda del colore delle foglie:

Chamaerops humilis var. humilis. Europa. Foglie verdi.
Chamaerops humilis var. argentea André (syn. C. humilis var. cerifera Becc.). Africa (Marocco, Algeria e Tunisia).

Usi

Ornamentali: questa specie di palma è largamente usata come pianta ornamentale, specie per formare grandi cespugli, favorendo la tendenza naturale della pianta a formare numerosi stipiti. L’uso era particolarmente diffuso nell’epoca dei giardini romantici (fine ‘800) e continuò sino ad oggi.
Alimentari: il germoglio, biancastro e midolloso, è edule ed era usato in tempo di carestia in sostituzione della patata oppure per farne dolci.
Artigianali: La fibra ottenuta dalle foglie viene utilizzata per la fabbricazione di scope, ventagli, funi, ceste, panieri, stuoie, cappelli e corde.

Ritorna alle specie arbustive >>> Vai

Ginepro rosso

Il ginepro rosso (Juniperus oxycedrus L.) è una pianta a portamento arbustivo, presente in Italia, appartenente alla famiglia delle Cupressaceae. È una specie caratteristica della macchia mediterranea.
Descrizione

Ha portamento eretto come il ginepro comune, e può superare gli otto metri d’altezza. Si distingue dal ginepro comune osservando le foglie (aghi), che presentano due righe bianche anziché una; dette righe bianche sono le file di stomi.

Una sottospecie importante è: Juniperus oxycedrus L. ssp. macrocarpa, il cui nome comune è “ginepro coccolone”; è caratterizzata dai galbuli più grandi e da una maggiore rarità. Anche questa sottospecie ha due righe bianche negli aghi, ma questi sono più corti e la pianta ha un portamento meno verticale.
Distribuzione e habitat

J. oxycedrus è originario del Mediterraneo ed è presente in Marocco e Portogallo, in Francia, in Iran e nel sud del Libano e in Israele. Cresce su terreni rocciosi, dal livello del mare a 1600 m di altitudine. L’epiteto oxycedrus significa “cedro affilato” e le sue specie potrebbero derivare dal cedrus degli antichi greci.

Il ginepro coccolone, da parte sua, cresce sulle distese costiere sabbiose delle rive del Mediterraneo.
Usi
Dal suo fusto si ricava un legno pregiato, scuro e profumato, duro da lavorare. In Italia il taglio è vietato.

Fornisce, inoltre, un catrame vegetale ancor oggi impiegato nelle affezioni locali della pelle, incorporato in pomate.

Ritorna alle specie arbustive >>> Vai

Ginepro Licio

Juniperus phoenicea L., 1753 è una specie arbustiva della famiglia delle Cupressaceae. Noto con i nomi comuni di ginepro fenicio, ginepro licio, cedro liscio è un elemento costitutivo della macchia mediterranea.
Descrizione

È una specie arbustiva e cespugliosa che può raggiungere gli 8 metri, con chioma verde scura. Ha un tronco diritto che diventa contorto in prossimità del mare, con scorza liscia, brunastra ed un po’ sfibrata longitudinalmente. Le foglie sono persistenti, squamiformi ed opposte, con forma ovale. Si tratta di una specie dioica a fiori unisessuali maschili e femminili costituiti da piccole spighe pendule; queste sono portate in amenti sui giovani rami laterali e terminali. I frutti sono dei galbuli rosso-bruni, globulari e penduli. Ha un sistema radicale molto robusto e adatto a penetrare anche dentro le rocce.
Biologia

Ha crescita molto lenta ed è piuttosto longevo.
Distribuzione e habitat

La specie è diffusa nella Spagna orientale, compresa Andorra, nella Francia meridionale e in una piccola parte dell’Italia nord-occidentale .

Si trova trova su colline aride a substrato calcareo, in prossimità delle coste.
Tassonomia

Sulla base di recenti studi la sottospecie Juniperus phoenicea subsp. turbinata andrebbe elevata al rango di specie a sé stante (Juniperus turbinata).
Usi
Le sue bacche, o coccole sono molto apprezzate per l’estrazione di un olio essenziale chiamato essenza di ginepro che trova applicazione nella produzione di liquori come il gin e in medicina e veterinaria come fitoterapico.

Ritorna alle specie arbustive >>> Vai

Alaterno

Rhamnus alaternus, il cui nome italiano è Alaterno, Ranno lanterno, Linterno, Purrolo o Ilatro, è un arbusto sempreverde, della famiglia delle Rhamnaceae.
Descrizione
L’alaterno è alto fino a 5 m. I Fusti con la corteccia rossastra, e rami giovani pubescenti; chioma compatta e tondeggiante, con foglie alterne, di 2-5 cm, a volte quasi opposte, ovali o lanceolate, coriacee, di colore verde lucido superiormente, verde-giallastre inferiormente, a margine intero o debolmente seghettato biancastro, con 4-6 paia di nervature che verso la fine del margine scorrono quasi parallelamente ad esso; fiori dioici piccoli raccolti in un corto racemo ascellare di colore giallo-verdastro, con petali isolati o assenti, stili fessurati in 2-4 parti, fioriscono da febbraio ad aprile; i frutti di 4-6 mm sono drupe obovoidali, decorative di colore rosso-brunastro, nere a maturità, contengono da 2 a 4 semi.
Differenze con specie simili

Molto simile alla Phillyrea latifolia (L.), che porta solitamente foglie opposte, questa è chiamata ilatro. Dello stesso genere di aspetto simile è il R. alpinus (L.), arbusto che presenta foglie caduche alterne, dalla lamina membranosa, e fiori con 4 petali e 4 sepali, fiorisce a fine primavera.
Distribuzione e habitat

È un tipico componente della macchia mediterranea e delle garighe delle regioni a clima mediterraneo del livello del mare fino ai 700 m di altitudine. Il suo areale è circummediterraneo, dalla Spagna alla Crimea, all’Asia Minore e all’Africa settentrionale, dove è comune nella macchia sempreverde, preferibilmente su terreni calcarei e rupestri.
Coltivazione

Predilige esposizioni soleggiate e calde, si adatta a terreni acidi o calcarei, sassosi, resiste bene alla siccità all’eccessiva umidità e alla salsedine portata dai venti marini. È adattabile anche alla coltivazione in vaso.

La moltiplicazione avviene con la semina, da settembre a ottobre o per talea, legnosa a fine gennaio o semilegnosa d’estate.
Usi

Poco usata come pianta ornamentale per fitte siepi frangivento in prossimità del mare
In silvicoltura utilizzata per rimboschimenti di zone rupestri e aride
Il legno molto duro, di colore giallo-brunastro e dal caratteristico odore sgradevole che emana appena tagliato (da cui il nome vernacolare di Legno puzzo), viene utilizzato per lavori di tornitura o ebanisteria.
Nell’industria dei coloranti. viene utilizzato per l’estrazione dei pigmenti noti come verde di vescica. Anticamente si utilizzava per tingere di giallo i tessuti.

Ritorna alle specie arbustive >>> Vai

Orniello

Il Fraxinus ornus è una pianta della famiglia delle Oleaceae (conosciuto come Orniello o Orno e chiamato volgarmente anche frassino da manna o albero della manna nelle zone di produzione della manna), è un albero che può superare i 10 metri di altezza, ma viene spesso rigovernato a cespuglio.
Distribuzione

È diffuso nell’Europa meridionale e nell’Asia minore. Il limite settentrionale della specie è l’arco alpino e la valle del Danubio mentre il limite orientale è la Siria e l’Anatolia.

In Italia è comunissimo in tutta la penisola, dalla fascia prealpina del Carso, fino ai laghi lombardi; penetra nelle valli principali fino al cuore delle Alpi risalendo le pendici montane fin verso i 1000 m di quota al nord e 1500 m al sud di altitudine. Nella pianura padana è quasi assente, torna a popolare gli Appennini (specie quelli settentrionali e centrali) fino a oltre 1.000 metri di altezza, in particolare su quelli del versante orientale della penisola. Specie piuttosto termofila e xerofila preferisce le zone di pendio alle vallette ombrose e fresche. In Sicilia si spinge fino ai 1.400 m di altitudine. Nelle regioni occidentali diviene progressivamente rara, fino a formare tipi localizzati, di cui non è sicura però la distinzione. Cresce principalmente in boschi e foreste in associazione a varie latifoglie, come quercia, carpino ecc… ed è formidabile nel ricolonizzare le zone forestali in cui è avvenuto un incendio o un precedente vecchio rimboschimento, mostrando elevata rusticità e messa a seme.
Morfologia

Ha tronco eretto, leggermente tortuoso, con rami opposti ascendenti con corteccia liscia grigiastra, opaca, gemme rossicce tomentose; la chioma ampia è formata da foglie caduche opposte, imparipennate, con 5-9 segmenti (più spesso 7), di cui i laterali misurano 5-10 cm, si presentano ellittici o lanceolati, brevemente picciolati e larghi un terzo della loro lunghezza. Il segmento centrale, invece, si presenta largo circa la metà della sua lunghezza ed è obovato; la faccia superiore è di un bel colore verde, mentre quella inferiore è più chiara e pelosa lungo le nervature.

Le infiorescenze sono a forma di pannocchie, generalmente apicali e ascellari; i fiori generalmente ermafroditi e profumati, con un breve pedicello, possiedono un calice campanulato con quattro lacinie lanceolate e diseguali di colore verde-giallognolo; la corolla ha petali bianchi leggermente sfumati di rosa, lineari, di 5-6 mm di lunghezza.
Il frutto è una samara oblunga, cuneata alla base, ampiamente alata all’apice, lunga 2-3 cm e con un unico seme compresso di circa un centimetro.
Coltivazione
L’orniello è una specie interessante per la silvicoltura, in quanto può essere considerata una specie pioniera, resistente a condizioni climatiche difficili, adatta quindi al rimboschimento di terreni aridi e siccitosi. Viene coltivato in Sicilia e Calabria per la produzione della manna, in Toscana nei vigneti viene frequentemente utilizzata come sostegno ai filari di vite. Si moltiplica facilmente con la semina.

Ritorna alle specie arbustive >>> Vai

Olivastro (oleastro, olivo selvatico)

L’olivo o ulivo (Olea europaea L., 1753) è un albero da frutto che si presume sia originario dell’Asia Minore e della Siria, perché in questa regione l’olivo selvatico spontaneo è ab antiquo comunissimo, formando delle vere foreste sulla costa meridionale dell’Asia Minore. Qui appunto i Greci cominciarono a coltivarlo scoprendone le sue proprietà, cui diedero il nome speciale di ἔλαια che i Latini fecero olea.

Fu utilizzato fin dall’antichità per l’alimentazione. Le olive, i suoi frutti, sono impiegati per l’estrazione dell’olio di oliva e, in misura minore, per l’impiego diretto nell’alimentazione. A causa del sapore amaro dovuto al contenuto in polifenoli appena raccolte, l’uso delle olive come frutti nell’alimentazione richiede però trattamenti specifici finalizzati alla deamaricazione (riduzione dei principi amari), realizzata con metodi vari. Appartiene alla famiglia delle Oleaceae e al genere Olea.
Etimologia

Il nome “olivo” deriva dal latino olīvum, da un ablativo olīvī, olīvō di oleum, a sua volta dal greco arcaico ἔλαιϝον élaiwon e dal greco classico ἔλαιον élaion. La forma “ulivo”, come anche “uliva”, è più frequente in Toscana, ma è diffusa anche in altre parti d’Italia, sebbene in contesti poetico-letterari; la forma “olivo”, del tutto prevalente invece nella letteratura scientifica, è tipica del Veneto, di parte della Sardegna, dell’Emilia-Romagna e del Lazio settentrionale; nel Sud prevalgono aulivo, alivo, avulivo.
Descrizione
Abbozzi delle infiorescenze o mignole

L‘olivo è un albero sempreverde e un albero latifoglie, la cui attività vegetativa è pressoché continua, con attenuazione nel periodo invernale. Ha crescita lenta ed è molto longevo: in condizioni climatiche favorevoli può diventare millenario e arrivare ad altezze di 15-20 metri. La pianta comincia a fruttificare dopo 3-4 anni dall’impianto, inizia la piena produttività dopo 9-10 anni e la maturità è raggiunta dopo i 50 anni; a differenza della maggiore parte dell’altra frutta, la produzione non diminuisce con alberi vetusti, infatti nel meridione si trovano oliveti secolari. Le radici, per lo più di tipo avventizio, sono espanse e superficiali: in genere non si spingono oltre i 0,7-1 metro di profondità.

Il fusto è cilindrico e contorto, con corteccia di colore grigio o grigio scuro e legno duro e pesante. La ceppaia forma delle strutture globose, dette ovoli, da cui sono emessi ogni anno numerosi polloni basali. La chioma ha una forma conica, con branche fruttifere e rami penduli o patenti (disposti orizzontalmente rispetto al fusto) secondo la varietà.

Le foglie sono opposte, coriacee, semplici, intere, ellittico-lanceolate, con picciolo corto e margine intero, spesso revoluto. La pagina inferiore è di colore bianco-argenteo per la presenza di peli squamiformi. La parte superiore invece è di colore verde scuro. Le gemme sono per lo più di tipo ascellare.

Il fiore è ermafrodito, piccolo, con calice di 4 sepali e corolla di petali bianchi. I fiori sono raggruppati in numero di 10–15 in infiorescenze a grappolo, chiamate “mignole”, sono emessi all’ascella delle foglie dei rametti dell’anno precedente. La mignolatura ha inizio verso marzo–aprile. La fioritura vera e propria avviene, secondo le cultivar e le zone, da maggio alla prima metà di giugno.

Il frutto è una drupa globosa, ellissoidale o ovoidale, a volte asimmetrica. È formato da una parte “carnosa” (polpa) che contiene dell’olio e dal nocciolo legnoso e rugoso. Il peso del frutto varia tra 1–6 grammi secondo la specie, la tecnica colturale adottata e l’andamento climatico. Ottobre-dicembre è il periodo della raccolta, che dipende dalle coltivazioni e dall’uso che si deve fare: se da olio o da mensa.

Biologia
Fenologia

L’olivo attraversa un periodo di riposo vegetativo che coincide con il periodo più freddo, per un intervallo di tempo che dipende dal rigore del clima.
Evoluzione fenologica della fioritura dell’olivo. Scala BBCH: a-50, B-51, C-54, d-57 (<15% di fiori aperti); f-65 (> 15% di fiori aperti); g-67 (<15% di fiori aperti); h-68

Alla ripresa vegetativa, che orientativamente si verifica a febbraio, ha luogo anche la differenziazione a fiore; fino a quel momento ogni gemma ascellare dei rametti dell’anno precedente è potenzialmente in grado di generare un nuovo germoglio o una mignola. Dalla fine di febbraio e per tutto il mese di marzo si verifica un’intensa attività dapprima con l’accrescimento dei germogli, poi anche con l’emissione delle mignole, fase che si protrae secondo le zone fino ad aprile. La mignolatura ha il culmine in piena primavera, con il raggiungimento delle dimensioni finali. Le infiorescenze restano ancora chiuse, tuttavia sono bene evidenti perché completamente formate.

Da maggio alla prima metà di giugno, secondo la varietà e la regione, ha luogo la fioritura, piuttosto abbondante. In realtà la percentuale di fiori che porteranno a compimento la fruttificazione è ridottissima, generalmente inferiore al 2%. L’impollinazione è anemofila. Alla fioritura segue l’allegagione, in linea di massima dalla metà di giugno. In questa fase la corolla appassisce e si secca persistendo fino a quando l’ingrossamento dell’ovario ne provoca il distacco. La percentuale di allegagione è molto bassa, inferiore al 5%, pertanto in questa fase si verifica un’abbondante caduta anticipata dei fiori (colatura). Si tratta di un comportamento fisiologico dal momento che la maggior parte dei fiori ha lo scopo di produrre il polline. Sulla percentuale di allegagione possono incidere negativamente eventuali abbassamenti di temperatura, gli stress idrici e i venti caldi.
Frutti maturi

Dopo l’allegagione ha luogo una prima fase di accrescimento dei frutti, che si arresta quando inizia la lignificazione dell’endocarpo. Questa fase, detta “indurimento del nocciolo”, ha inizio nel mese di luglio e si protrae orientativamente fino agli inizi di agosto.

Quando l’endocarpo è completamente lignificato riprende l’accrescimento dei frutti, in modo più intenso secondo il decorso climatico. In regime non irriguo sono le piogge dalla metà di agosto a tutto il mese di settembre a influire sia sull’accrescimento sia sull’accumulo di olio nei lipovacuoli: in condizioni di siccità le olive restano di piccole dimensioni, possono subire una cascola più o meno intensa e daranno una bassissima resa in olio per unità di superficie; in condizioni di umidità favorevoli le olive raggiungono invece il completo sviluppo a settembre. Eventuali piogge tardive (da fine settembre a ottobre), dopo una forte siccità estiva, possono in pochi giorni far aumentare le dimensioni delle olive in modo considerevole, tuttavia la resa in olio sarà bassissima perché l’oliva accumula soprattutto acqua.

Da ottobre a dicembre, secondo la varietà, ha luogo l’invaiatura, cioè il cambiamento di colore, che indica la completa maturazione. L’invaiatura è più o meno scalare sia nell’ambito della stessa pianta sia da pianta a pianta. All’invaiatura l’oliva cessa di accumulare olio e si raggiunge la massima resa in olio per ettaro.

Dopo l’invaiatura le olive persistono sulla pianta. Se non raccolte vanno incontro a una cascola più o meno intensa, ma differita nel tempo fino alla primavera successiva. In questo periodo la resa in olio tende ad aumentare in termini relativi: il tenore in olio aumenta perché le olive vanno incontro ad una progressiva perdita d’acqua. In realtà la resa in olio assoluta (in altri termini, riferita all’unità di superficie) diminuisce progressivamente dopo l’invaiatura perché una parte della produzione si perde a causa della cascola e degli attacchi da parte di parassiti e fitofagi.

Nella tabella seguente è riportato uno schema che riassume il ciclo fenologico dell’olivo. I periodi di riferimento hanno solo valore orientativo perché possono cambiare secondo la cultivar e la regione.

Fase fenologica Periodo d’inizio Durata Manifestazione
Riposo vegetativo dicembre–gennaio 1–3 mesi Attività dei germogli ferma o rallentata
Differenziazione a fiore febbraio
Ripresa vegetativa fine febbraio 20–25 giorni Emissione di nuova vegetazione di colore chiaro
Mignolatura metà marzo 18–23 giorni Mignole di colore verde, a maturità biancastre
Fioritura dagli inizi di maggio alla prima decade di giugno 7 giorni Fiori aperti e bene evidenti
Allegagione fine maggio–giugno Caduta dei petali, cascola di fiori e frutticini
Accrescimento frutti seconda metà di giugno 3–4 settimane Frutti piccoli ma bene evidenti
Indurimento del nocciolo luglio 7–25 giorni Arresto della crescita dei frutti. Resistenza al taglio di sezionamento
Accrescimento frutti agosto 1,5–2 mesi Aumento considerevole delle dimensioni dei frutti, comparsa delle lenticelle
Invaiatura da metà ottobre a dicembre Almeno metà della superficie del frutto vira dal verde al rosso violaceo
Maturazione completa da fine ottobre a dicembre Frutto con colorazione uniforme dal violaceo al nero

Ritorna alle specie arbustive >>> Vai

Ilatro

Phillyrea latifolia, noto con il nome comune di Ilatro è un arbusto o piccolo albero appartenente alla famiglia (tassonomia) delle Oleacee e del genere Phillyrea.

È una specie tipica della macchia mediterranea.
Descrizione
Foglie e frutti

È un arbusto sempreverde legnoso che può raggiungere l’altezza di 6-7 m.

Le foglie sono semplici, opposte, sempreverdi.

I fiori sono dioici, piccoli, bianchi, con 4 sepali e 4 petali riuniti parzialmente in un breve tubo. I fiori sono raccolti in brevi grappoli ascellari.

I frutti sono drupe carnose, nere a maturazione, vagamente simili alle olive, ma più piccoli, più rotondi e riuniti in grappoli.

La pianta è molto simile al Rhamnus alaternus che è chiamato alaterno, che ha foglie solitamente alterne.
Distribuzione
Originario del bacino mediterraneo, predilige climi miti e soleggiati e vegeta sino a 800 m di quota.

Ritorna alle specie arbustive >>> Vai

Ilatro sottile

La Phillyrea angustifolia, nota con il nome comune di Ilatro sottile è un arbusto o piccolo albero sempreverde della famiglia delle Oleacee.

È una specie tipica della macchia mediterranea.

Descrizione

È una pianta legnosa che può raggiungere l’altezza di 6-7 m.

Le foglie sono semplici, opposte, sempreverdi. Sono più sottili e hanno meno nervature secondarie rispetto alle foglie di P. latifolia.

I fiori sono unisessuali, piccoli, bianchi, con 4 sepali e 4 petali riuniti parzialmente in un breve tubo. I fiori sono raccolti in brevi grappoli ascellari.

I frutti sono drupe carnose, nere a maturazione, vagamente simili alle olive, ma più piccoli, più rotondi e riuniti in grappoli.
Distribuzione e habitat
Vegeta soprattutto lungo la costa tirrenica sino a 600 m di quota. Colonizza terreni difficili e siccitosi.

 

Ritorna alle specie arbustive >>> Vai

Ginestra dei Carbonai

La ginestra dei carbonai (nome scientifico Cytisus scoparius L. & Link, 1822) è un piccolo arbusto, erbaceo, a portamento cespitoso, appartenente alla famiglia delle Fabaceae.
Etimologia

Il nome generico (Cytisus) secondo alcune etimologie deriva dalla parola greca kutisus un nome per una specie di trifoglio (in riferimento alla forma delle foglie); secondo altre etimologie “Cytisus” è una denominazione latina che discende da un preesistente vocabolo greco kytisos di incerta etimologia (potrebbe derivare da qualche idioma dei primi abitatori dell’Asia Minore).; secondo altre etimologie ancora deriva dalla parola greca kýtos (= cavità). Il nome specifico (scoparius) significa scopa (o simile ad una scopa) e allude al portamento dell’impianto.
Il binomio scientifico di questa pianta inizialmente era Spartium scoparium, proposto dal botanico Carl von Linné (1707 – 1778) biologo e scrittore svedese, considerato il padre della moderna classificazione scientifica degli organismi viventi, nella pubblicazione Species Plantarum del 1753, modificato successivamente in quello attualmente accettato Cytisus scoparius proposto dal botanico Johann Heinrich Friedrich Link (1767-1851) biologo e naturalista tedesco, nella pubblicazione Enumeratio Plantarum Horti Regii Berolinensis Altera. Berolini. Berlin – 2: 241. 1822 del 1822.
Descrizione
Queste piante sono alte da 60 cm fino a 1 – 3 metri. La forma biologica è del tipo fanerofita cespugliosa (P caesp), ossia sono piante perenni, legnose alla base con portamento cespuglioso anche robusto, con gemme svernanti poste ad un’altezza dal suolo tra i 12 ed i 20 cm (massimo 50 cm); nella stagione fredda le porzioni erbacee si seccano e rimangono in vita soltanto le parti legnose e ipogee.
Fusto

Il fusto è verde, eretto, angoloso (gli angoli dei rami sono acuti), striato longitudinalmente (con 5 ali larghe fino 1 mm), duro, con ramificazioni diritte ma flessibili. La superficie è glabra.
Foglie

Le foglie sono decidue, stipolate e piccole; sono picciolate (il picciolo è spianato) e trifogliate; quelle superiori sono sessili e semplici. Dimensione dei segmenti laterali: larghezza 4 – 6 mm; lunghezza 10 – 15 mm. Quello centrale è 1/3 maggiore di quelli laterali. La pubescenza è formata da brevi peli ricciuti sui piccioli e sulla pagina inferiore delle foglie.
Infiorescenza

L’infiorescenza è composta da fiori isolati posti all’ascella delle foglie normali.
Fiore

I fiori sono profumati e colorati di giallo-oro, sono ermafroditi, pentameri, zigomorfi, eteroclamidati (calice e corolla ben differenziati) e diplostemoni (gli stami sono il doppio dei petali). Dimensione di un singolo fiore: 20 – 25 mm.

Formula fiorale:

K (5), C 3+(2), A (10), G 1 (supero)

Calice: il calice è glabro ed è del tipo tubulare (gamosepalo) assai più lungo che largo e termina con 5 denti acuti; il calice è bilabiato in quanto i 5 denti sono raggruppati in due denti superiori brevi (due labbra corte) e tre inferiori più lunghi. Lunghezza del calice 6 – 7 mm.
Corolla: la corolla, (a 5 petali) è del tipo papilionaceo dialipetalo: ossia un petalo centrale più sviluppato degli altri ed è ripiegato verso l’alto (vessillo spatolato); i due petali intermedi (le ali) sono liberi e in posizione laterale; mentre gli altri due rimanenti, inferiori, (carena pendula) sono concresciuti e inclusi nelle ali. La carena è lunga 20 – 23 mm. Dimensioni del vessillo: larghezza 20 mm; lunghezza 21 – 23 mm.
Androceo: gli stami sono 10 connati (saldati in un fascio unico = monadelfi).

Lo stilo attorcigliato

Gineceo: lo stilo è unico e ricurvo su un ovario supero formato da un carpello uniloculare. Lo stigma è apicale. Lo stilo si attorciglia a spirale dopo l’antesi.
Fioritura: da maggio a giugno.

Frutti

Il frutto è un legume appiattito, nero, peloso sui bordi di tipo deiscente. Dimensioni del legume: larghezza 10 mm; lunghezza 30 – 50 mm.

Ritorna alle specie arbustive >>> Vai

Ginestra odorosa

La ginestra odorosa (Spartium junceum L.) è una pianta della famiglia delle Fabaceae, tipica degli ambienti di gariga e di macchia mediterranea. È nota anche come ginestra di Spagna. È l’unica specie del genere Spartium.
Descrizione

È una pianta a portamento arbustivo (alto da 0,5 a 3,00 m), perenne, con lunghi fusti. I fusti sono verdi cilindrici compressibili ma resistenti, eretti, ramosissimi e sono detti vermene. Le foglie sono lanceolate, i fiori sono portati in racemi terminali di colore giallo vivo. L’impollinazione è entomogama. I frutti sono dei legumi; i semi vengono lasciati cadere per gravità a poca distanza dalla pianta madre.
Distribuzione e habitat

Specie nativa dell’area del Mediterraneo, dal sud dell’Europa, al Nord Africa al Medio Oriente.
Risulta endemica in gran parte dell’areale del bacino del Mediterraneo.
Cresce in zone soleggiate da 0 a 1200 m s.l.m.
Predilige i suoli aridi, sabbiosi. Può vegetare anche su terreni argillosi, purché non siano dominati dall’umidità e da acque stagnanti.
Coltivazione

Il metodo più utilizzato è la propagazione per seme. La semina si effettua in autunno (settembre) o anche in primavera (da marzo a metà aprile). Per favorire un’elevata percentuale di germinabilità dei semi (circa il 90%) in un tempo piuttosto ridotto, è consigliabile uno dei seguenti trattamenti:

cicli fisici di temperatura: acqua calda a 100 °C per 23 minuti, acqua a 60-65 °C per 30 minuti in acqua a 40 °C per 1 ora, acqua fredda per 40 ore.
trattamenti chimici: immersione per 24 ore in una soluzione di NaHCO3 (bicarbonato di sodio) al 2%, 15 – 30 minuti in H2SO4 (acido solforico) concentrato con successivo lavaggio abbondante.

I tagli di ringiovanimento sono di ostacolo alla fioritura e alla fruttificazione. Pertanto, se si vogliono ottenere fiori e semi, occorre lasciare inutilizzato, per alcuni anni (5 – 6), un numero adeguato di piante.
Usi

Essendo una pianta che sviluppa le sue radici in profondità, può essere utilizzata per consolidare terreni.
L’estratto assoluto dei fiori è una fragranza ricca ed opulenta che possiede una nota burrosa particolare. Viene prodotto per lo più a Grasse da fiori provenienti dalla Calabria.
La concreta di ginestra è una sostanza cerosa intensamente profumata, di colore giallo bruno, ricorda il miele e la cera d’api, sia nel colore che nel profumo, la concreta viene ricavata a mezzo di solventi (esano) il prodotto finale è un miscuglio di oli essenziali, acidi grassi e cere. La distillazione sottovuoto di questa sostanza fornisce un’essenza denominata genêt absolu, ossia ginestra assoluta.
Dalle vermene si estrae la fibra tessile.

Ritorna alle specie arbustive >>> Vai

Ginestra spinosa

Lo sparzio spinoso (Calicotome spinosa (L.), nota anche come ginestra spinosa, è una pianta arbustiva della famiglia delle Fabaceae, tipica degli ambienti di gariga e macchia mediterranea.
Descrizione

È una pianta a portamento arbustivo, con rami intricati e spinosi, che può raggiungere sino a 2 m di altezza.

Ha foglie trifogliate con foglioline ovali oblunghe. Nel periodo estivo le foglie cadono.

I fiori sono di colore giallo, isolati o a gruppi di due. Il calice è campanulato. Fioritura a maggio/giugno

I frutti si presentano sotto forma di legumi lineari, oblunghi, di 2–5 cm di lunghezza, glabri o con scarsi peli.
Distribuzione e habitat
È diffusa nella parte occidentale del bacino del Mediterraneo (Spagna, Francia, Italia e Algeria).
È presente anche, come specie introdotta dall’uomo, in Nuova Zelanda.

Ritorna alle specie arbustive >>> Vai

Sparzio villoso

Lo sparzio villoso (Calicotome villosa (Poir.) è una pianta arbustiva della famiglia delle Fabaceae, tipica degli ambienti di gariga e macchia mediterranea.
Descrizione

È una pianta a portamento arbustivo che può crescere sino a 1–2 m di altezza. Ha rami spinescenti e foglioline trifogliate.
I fiori sono di colore giallo e riuniti in fascetti
I frutti sono legumi larghi 5–6 mm e lunghi 30 mm, con due spigoli a forma di ali sull’orlo inferiore.
Distribuzione e habitat
È una specie tipica di gariga e macchia mediterranea, dove si consocia con lentisco, olivastro e fillirea.

Ritorna alle specie arbustive >>> Vai

Caprifoglio mediterraneo

Il caprifoglio mediterraneo (Lonicera implexa Aiton) è una pianta della famiglia delle Caprifoliaceae
Morfologia
Si presenta in forma di arbusto rampicante sempreverde, con rami volubili.

Le foglie glabre, sono opposte e sessili, coriacee con lamina ovata. Le foglie superiori sono concresciute fra loro intorno allo stelo e avvolgenti il fusto a formare un calice intero.

Ha fiori sessili, riuniti in capolini terminali tubulosi e di colore rosa inseriti su brattee ellittiche. Fiorisce da febbraio a maggio.

Il frutto è una bacca ovoidale di colore rosso-arancio a maturità.
Distribuzione e habitat
La pianta è diffusa in tutti i paesi che si affacciano sul Mar Mediterraneo. Vegeta in associazione con arbusti che fungono da sostegno, soprattutto con il lentisco nei boschi di leccio, le macchie e le siepi.

Ritorna alle specie arbustive >>> Vai

Salsapariglia nostrana

La salsapariglia nostrana (Smilax aspera, L.) è una pianta monocotiledone della famiglia delle Liliaceae. In Italia è nota anche col nome comune di stracciabraghe o strazzacausi.

Smilax (Smilace) era il nome di una ninfa della mitologia greca che, perdutamente e infelicemente innamorata del giovane Croco, suicidatosi perché non poteva amarla per l’opposizione degli Dei dell’Olimpo, fu trasformata in un rampicante.

Descrizione
È una pianta arbustiva con portamento lianoso, rampicante, dal fusto flessibile e delicato, ma cosparso di spine acutissime.
Le foglie, a forma di cuore, hanno i margini dentati e spinosi, e spinosa è anche la nervatura mediana della pagina inferiore.
I fiori, molto profumati, sono piccoli, giallicci o verdastri, poco vistosi e raccolti in piccole ombrelle; fioriscono, nelle regioni a clima mediterraneo, da agosto ad ottobre.
I frutti sono bacche rosse, riunite in grappoli, che giungono a maturazione in autunno. Contengono semi minuscoli e rotondi. Insipide e poco appetibili per l’uomo, costituiscono una fonte di nutrimento per numerose specie di uccelli.
Distribuzione

È diffusa in Messico, nelle isole Canarie, in Africa centrale (Repubblica Democratica del Congo, Kenya, Etiopia), in Asia centrale (India, Bhutan, Nepal) e nelle regioni dell’area mediterranea. In Italia è comune in gran parte della penisola, nelle isole maggiori e minori; al Nord è rara e si presenta solo in stazioni isolate (Trieste, Grado, Chioggia, Cervia).

Cresce spontanea nei boschi e nelle macchie. È una specie legata essenzialmente all’ambiente delle sclerofille, dalla lecceta alle sue forme degradate fino al Oleo-Ceratonion e alla gariga, ad altitudini che vanno dal livello del mare fino a 1.200 m.

La radice contiene numerosi principi attivi tra cui la smilacina, la salsasaponina, l’acido salsasapinico. Ha proprietà sudoripare e depurative. Può essere utilizzata in infusi e decotti per curare l’influenza, il raffreddore, i reumatismi, l’eczema. Ha inoltre proprietà espettoranti ed emetiche (se somministrata in dosi abbondanti) e gli estratti vengono usati in formulazioni galeniche per migliorare l’assorbimento dei principi attivi farmacologici.
Uso alimentare
Nel Salento (Puglia) i germogli teneri di questa pianta vengono raccolti e utilizzati alla stregua degli asparagi selvatici, preparati previa bollitura in frittata; con le uova; sott’olio (in conserva); in insalata, lessati e conditi con olio e aceto di vino.

Ritorna alle specie arbustive >>> Vai

Oleandro

L’oleandro (Nerium oleander L., 1753) è un arbusto sempreverde appartenente alla famiglia delle Apocynaceae, unica specie del genere Nerium. È forse originario dell’Asia ma è naturalizzato e spontaneo nelle regioni mediterranee e diffusamente coltivato a scopo ornamentale.

Descrizione

L’oleandro ha un portamento arbustivo, con fusti generalmente poco ramificati che partono dalla ceppaia, dapprima eretti, poi arcuati verso l’esterno. I rami giovani sono verdi e glabri. I fusti e i rami vecchi hanno una corteccia di colore grigiastro.

Le foglie, velenose come i fusti, sono glabre e coriacee, disposte a verticilli di 2-3, brevemente picciolate, con margine intero e nervatura centrale robusta e prominente. La lamina è lanceolata, acuta all’apice, larga 1–2 cm e lunga 10–14 cm.

I fiori sono grandi e vistosi, a simmetria raggiata, disposti in cime terminali. Il calice è diviso in cinque lobi lanceolati, di colore roseo o bianco nelle forme spontanee. La corolla è tubulosa e poi suddivisa in 5 lobi, di colore variabile dal bianco al rosa e al rosso carminio. Le varietà coltivate sono a fiore doppio e sono quasi tutte profumate. L’androceo è formato da 5 stami, con filamenti saldati al tubo corollino. L’ovario è supero, formato da due carpelli pluriovulari. La fioritura è abbondante e scalare, ha inizio nei mesi di aprile o maggio e si protrae per tutta l’estate fino all’autunno.

Il frutto è un follicolo fusiforme, stretto e allungato, lungo 10–15 cm. A maturità si apre longitudinalmente lasciando fuoriuscire i semi. Il seme ha dimensione variabile dai 3 ai 5 mm di lunghezza e circa 1 mm di diametro ed è sormontato da una peluria disposta ad ombrello (impropriamente detta pappo) che permette al seme di essere trasportato dal vento anche per lunghe distanze.
Esigenze e adattamento

L’oleandro è una specie termofila ed eliofila, abbastanza rustica. Trae vantaggio dall’umidità del terreno rispondendo con uno spiccato rigoglio vegetativo, tuttavia ha caratteri xerofitici dovuti alla modificazione degli stomi fogliari che gli permettono di resistere a lunghi periodi di siccità. Teme il freddo, pertanto in ambienti freddi fuori dalla sua zona fitoclimatica deve essere posto in luoghi riparati e soleggiati. Viene coltivato in tutta Italia a scopo ornamentale e spesso è usato lungo le strade perché non richiede particolari cure colturali.

Nonostante il portamento cespuglioso per natura, può essere allevato ad albero per realizzare viali alberati suggestivi per la fioritura abbondante, lunga e variegata nei colori. In questo caso richiede frequenti interventi di spollonatura per rimuovere i polloni basali emessi dalla ceppaia.

Ecologia

L’oleandro ha un areale piuttosto vasto che si estende nella fascia temperata calda dal Giappone al bacino del Mediterraneo. In Italia vegeta spontaneamente nella zona fitoclimatica del Lauretum presso i litorali, inoltrandosi all’interno fino ai 1000 metri d’altitudine lungo i corsi d’acqua. In effetti si tratta di un elemento comune e inconfondibile della vegetazione riparia degli ambienti mediterranei, quasi sempre associato ad altre specie riparie quali l’ontano, la tamerice, l’agno casto. S’insedia sia sui suoli sabbiosi alla foce dei fiumi o lungo la loro riva, sia sui greti sassosi, formando spesso una fitta vegetazione.

L’associazione vegetale riparia con una marcata presenza dell’oleandro è una particolare cenosi vegetale che prende il nome di macchia ad oleandro e agno casto, di estensione limitata. Si tratta di una naturale prosecuzione dell’oleo-ceratonion, dal momento che le due cenosi gradano l’una verso l’altra con associazioni intermedie che vedono contemporaneamente la presenza dell’oleandro e di elementi tipici della macchia termoxerofila (lentisco, carrubo, mirto, ecc.). Un caso singolare, forse unico in natura, si rinviene nella Gola di Gorropu fra il Supramonte di Orgosolo e quello di Urzulei in Sardegna: in questo caso la macchia ad oleandro e agno casto si inoltra fino ai 1000 metri, confinando con la lecceta primaria.

Farmacognosia

L’oleandro è una delle piante più tossiche che si conoscano. Tutta la pianta (foglie, corteccia, semi) è tossica per qualsiasi specie animale. Se ingerita porta a:

bradicardia ed aumento della frequenza respiratoria
disturbi gastrici, tra cui vomito, nausea e bruciore
disturbi sul sistema nervoso centrale, tra cui assopimento.

Responsabile di questa estrema tossicità è, insieme agli alcaloidi, l’oleandrina, un glicoside cardiotossico (con struttura simile alla ouabaina) e inibitore della pompa sodio-potassio a livello di membrana cellulare.

L’oleandro contiene una serie di altri principi tossici, che si conservano anche dopo l’essiccamento.

Altre sostanze che si trovano in natura, con lo stesso meccanismo di azione, sono la digossina, la digitale purpurea ed il giglio della valle.

Le specie animali più colpite sono gli equini, i bovini e i piccoli carnivori. Nel cavallo abbiamo anche la comparsa di gravi e profonde lesioni a livello della mucosa orale. La morte sopraggiunge per collasso cardio-respiratorio solo nel caso in cui se ne ingeriscano grandi quantità.

Le sue proprietà tossiche sono state usate come “arma” per l’omicidio descritto nel film White Oleander.

Inoltre la storia ci racconta che diversi soldati delle truppe napoleoniche morirono per avvelenamento dopo aver usato rami di oleandro come spiedi nella cottura della carne alla brace, durante le campagne militari in Italia.

Ritorna alle specie arbustive >>> Vai

Pungitopo

Il pungitopo (Ruscus aculeatus L.) è un arbusto sempreverde con tipiche bacche rosse impiegate come ornamento natalizio, appartenente alla famiglia delle Asparagaceae.

Caratteristiche e distribuzione
Il pungitopo, nome volgare di Ruscus aculeatus, è una pianta cespugliosa sempreverde alta dai 30 agli 80 cm, provvista di cladodi, fusti trasformati che hanno assunto la funzione delle foglie, divenendo ovali, appiattiti e rigidi, con estremità pungenti. Poco sopra la base dei cladodi, in primavera, si schiudono i minuscoli fiori verdastri, e quindi i frutti, che maturano in inverno, e che sono vistose bacche scarlatte grosse come ciliegie. È una specie dell’Eurasia ma si spinge anche nella regione mediterranea, nella regione biografica centro europea e anche in quella atlantica; in Irlanda si rinvengono numerosi esemplari in parchi e giardini sia sulla costa Ovest che sulla costa Est. Costituisce una delle componenti del sottobosco delle pinete e delle leccete nel bioma mediterraneo, mentre nelle foreste decidue è riscontrabile in querceti ma, in alcuni casi, anche in faggete di bassa quota. La pianta è dioica, cioè porta fiori, unisessuali, in due piante diverse, una con i fiori maschili e una con i fiori femminili, che producono le bacche.
Usi

Il pungitopo viene coltivato come pianta ornamentale, soprattutto come decorazione durante le feste natalizie. I germogli di pungitopo, dal gusto amarognolo, raccolti da marzo a maggio, vengono utilizzati in cucina a mo’ di asparagi, lessati per insalate, minestre e frittate.
Avvertenza
Le informazioni riportate non sono consigli medici e potrebbero non essere accurate. I contenuti hanno solo fine illustrativo e non sostituiscono il parere medico: leggi le avvertenze.

Nella medicina popolare, per le doti diuretiche che possiede, è usato nella “composizione delle cinque radici”, che comprende pungitopo, prezzemolo, sedano, finocchio e asparago.

Tra i componenti principali del rusco vanno citati i flavonoidi con il rutoside. È proprio quest’ultimo ad essere indicato e definito come vitamina P (cioè con caratteristiche simili), e quindi indicato per aumentare la resistenza delle pareti dei capillari. Quindi, il suo utilizzo principale è nella terapia delle varici venose, delle emorroidi, delle flebiti. La pianta viene indicata anche come antinfiammatorio, diuretico e antireumatico. Abitualmente il rusco viene prescritto per via orale, tramite il decotto.
Altre curiosità

I semi, opportunamente tostati, venivano un tempo impiegati come sostituti del caffè.

Il nome fa riferimento al fatto che anticamente le sue foglie, taglienti, venivano messe attorno alle provviste, per salvaguardarle dai topi. Con il termine “pungitopo maggiore” si intende comunemente l’agrifoglio.

Ritorna alle specie arbustive >>> Vai

Specie arboree tipiche

Gli alberi devono far fronte a lunghi periodi di aridità del terreno, per questo sono di solito sempreverdi oppure arbusti e piante aromatiche.

Leccio
Quercia
Carrubo

Leccio

Il leccio (Quercus ilex L., 1753), detto anche elce, è un albero spontaneo appartenente alla famiglia Fagaceae e al genere Quercus, diffuso nei paesi del bacino del Mediterraneo
Morfologia
Fusto

Il leccio è un albero, sempreverde e latifoglie, con fusto raramente dritto, singolo o diviso alla base, di altezza fino a 20-24 m. Può assumere aspetto di cespuglio qualora cresca in ambienti rupestri. È molto longevo, potendo diventare plurisecolare, ma ha una crescita molto lenta.

La corteccia è liscia e grigia da giovane; col tempo diventa dura e scura quasi nerastra, finemente screpolata in piccole placche persistenti di forma quasi quadrata. I giovani rami dell’anno sono pubescenti e grigi, ma dopo poco tempo diventano glabri e grigio- verdastri. Le gemme sono piccole, tomentose, arrotondate con poche perule.
Foglie

Le foglie sono semplici, a lamina coriacea a margine intero o dentato, molto variabile nella forma che va da lanceolata ad ellittica (rotondeggiante nella sottospecie rotundifolia); la base è cuneata o arrotondata. La pagina superiore è verde scuro e lucida, la inferiore grigiastra e marcatamente tomentosa. Sono lunghe 3–8 cm, e larghe 1-3,5 cm. La nervatura centrale è dritta e sono presenti 7 – 11 paia di nervature laterali.

La pubescenza sulla pagina inferiore è simile a quella della Quercus suber con tricomi che nascondono gli stomi. Questi ultimi sono rotondeggianti. Le foglie restano sulla pianta 2-3 anni. Il picciolo è breve, peloso, provvisto di stipole marroncine, lineari e presto caduche.

Sono presenti due tipi di foglie (eterofillia): quelle apicali e quelle degli esemplari giovani sono ovaleggianti, con denti mucronati o spinescenti, con pubescenza della pagina inferiore ridotta, e qualche tricoma anche sulla pagina superiore. Le foglie delle plantule sono pelosissime, quasi bianche alla germogliazione, poi diventano glabrescenti, ma il giovane fusticino continua ad essere fittamente pubescente.

Fiori

I fiori sono unisessuali, la pianta è monoica. I fiori maschili sono riuniti in amenti penduli, cilindrici e pubescenti, hanno perianzio con 6 lobi e 6-8 stami. I fiori femminili sono in spighe peduncolate composte da 6-7 fiori, ogni fiore ha perianzio esalobato e 3-4 stigmi. Gli amenti maschili sono lunghi 5–7 cm e sono portati alla base dei rami dell’anno. La fioritura avviene nella tarda primavera, da aprile a giugno.
Frutti

I frutti sono delle ghiande, dette lecce, portate singole o in gruppi di 2-5, su un peduncolo lungo circa 10–15 mm (eccezionalmente anche 40 mm). Le dimensioni variano da 1,5 a 3 cm di lunghezza, per 1-1,5 cm di diametro. Sono di colore castano scuro a maturazione, con striature più evidenti.

All’apice di ogni ghianda è presente un robusto mucrone. Le ghiande sono coperte per un terzo o metà della loro lunghezza da una cupola provvista di squame ben distinte, con punte libere ma non divergenti. Maturano nello stesso anno della fioritura, in autunno.

Radici

L’apparato radicale è robusto, fittonante, si sviluppa già dai primi anni di vita e può penetrare per diversi metri nel terreno. Questo comporta una notevole resistenza alla siccità (la pianta va a trovare l’acqua in profondità), ma anche problemi di trapianto, che questa specie sopporta male. Le radici laterali possono essere anch’esse molto robuste e spesso emettono polloni.
Legno
Il legno è a porosità diffusa, il durame è di colore rossiccio e l’alburno è di colore chiaro. Si tratta di un legno duro, compatto e pesante, soggetto ad imbarcarsi, difficile da lavorare e da stagionare. È utilizzato soprattutto come combustibile e per la produzione di carbone vegetale. Il legno del leccio è tra i più tannici che si conosca. I tannini sono sostanze chimiche amare disinfettanti, di colore scuro. Quando nel legno fresco appena tagliato di leccio si conficca un chiodo in ferro, dopo qualche ora è possibile notare una piccola chiazza blu che circonda il chiodo. Quest’anello è un viraggio del legno dovuto alla reazione dei tannini con il ferro ed è un fenomeno tipico di questa ed altre piante tanniche.

Sottospecie

Esistono due sottospecie:

Quercus ilex subsp. ilex. Nativa nell’area che va dall’est della penisola iberica alla Costa Azzurra fino alla Grecia. Foglie assai vicine; ghiande lunghe 2 cm, dal sapore dolciastro.
Quercus ilex subsp. rotundifolia (syn. Q. rotundifolia, Q. ballota). Nativa nell’area che va dal sud della penisola iberica al nordovest dell’Africa. Foglie rade; ghiande lunghe 2.5 cm, dal sapore amarognolo.

Distribuzione e habitat

Il leccio cresce lungo tutto il bacino del Mediterraneo, mancando solo in Egitto (in Libia è stato probabilmente introdotto dall’uomo). La specie è comunque maggiormente diffusa nel settore occidentale, soprattutto in Algeria e Marocco, in tutta la penisola Iberica (dove costituisce uno dei componenti principali della dehesa), nella Francia mediterranea e in Italia, dove forma boschi puri anche di notevoli dimensioni.

Nel settore orientale, a partire dai Balcani, invece, si trova in boschi misti ad altre essenze forestali, spesso ben distanti tra loro, e solo in stazioni con un’adeguata umidità. Si trova, sempre consociato, anche lungo le coste turche del Mar Nero. In Italia è diffuso soprattutto nelle isole e lungo le coste liguri, tirreniche e ioniche. Sul versante adriatico le popolazioni sono più sporadiche e disgiunte (tranne che in Puglia, Abruzzo e Marche). Piccole popolazioni sono presenti anche sulle Prealpi lungo le coste dei laghi, sui Colli Euganei, in Friuli Venezia Giulia, in Romagna fino al Bolognese-Imolese e nel Bosco della Mesola nel ferrarese.

Il leccio è uno dei rappresentanti più tipici e importanti dei querceti sempreverdi mediterranei, ed è il rappresentante caratteristico del Quercetum ilicis, la vegetazione cioè della fascia mediterranea temperata. Per quanto riguarda il terreno questa specie non ha particolari esigenze. Preferisce però terreni non troppo umidi, con un buon drenaggio. Ha una crescita maggiore in terreni vulcanici e nelle zone costiere, mentre in terreni rocciosi calcarei ha una crescita minore. In zone più umide dell’entroterra ha una crescita stentata ed è sopraffatto spesso da specie più adatte

Ritorna alle specie arboree >>> Vai

Quercia

Quercus (L., 1753) è un genere di piante appartenente alla famiglia delle Fagacee, comprendente gli alberi comunemente chiamati querce.

Etimologia

La parola latina quercus, da cui l’omologa italiana quercia (toscano querce), risale a una forma aggettivale (arbor) quercea, mentre molti dialetti italiani hanno una forma *cerqua (presente anche in vari toponimi toscani). Il francese chêne risale invece al gallico cassǎnus, l’italiano meridionale ha il tipo carrillo. Il greco presenta invece δρῦς drŷs “albero” e φήγος phḗgos “tipo di quercia”, applicati anche ad altre specie botaniche.
Descrizione
Bosco misto di farnia e carpino bianco (querco-carpineto – Parco naturale lombardo della Valle del Ticino)
Gustave Courbet (1843)

Il genere Quercus comprende molte specie di alberi spontanei in Italia. In molti casi il portamento è imponente anche se ci sono specie arbustive. Le foglie, alterne, sono talvolta lobate, talvolta dentate e sulla stessa pianta possono avere forme differenti, per la differenza del fogliame giovanile rispetto a quello adulto.

Le querce sono piante monoiche, ovvero la stessa pianta porta sia i fiori maschili che quelli femminili. I fiori maschili sono riuniti in amenti di colore giallo, quelli femminili sono di colore verde. Il frutto è la ghianda.
Una delle caratteristiche di alcune specie di querce decidue è che le foglie secche cadono alla fine dell’inverno e non in autunno
Distribuzione e habitat

L’areale del genere Quercus comprende buona parte dell’emisfero settentrionale, estendendosi dalla zona temperata a quella tropicale di America, Europa, Nord Africa e Asia.

In Europa durante l’ultima era glaciale le popolazioni di Quercus sono state confinate in tre zone rifugio situate in Spagna, in Italia e nei Balcani per poi ricolonizzare il territorio del continente europeo. Lo scienziato francese Antoine Kremer ha studiato, tramite il confronto dei dati genetici e dei dati palinologici dei pollini fossili delle due querce più diffuse in Europa, Quercus robur e Quercus petraea, le vie di colonizzazione intraprese dai vari lignaggi. I rilievi ed in particolare le Alpi hanno a volte rallentato o deviato l’avanzata ma la traiettoria sud-nord è resa costantemente visibile.

In questo modo le querce rifugiatesi nella penisola iberica e in Italia hanno colonizzato tutta la zona situata ad ovest lungo l’asse Tolosa-Colonia-Amsterdam, ed in maniera esclusiva le isole britanniche. Le querce rifugiatesi nei Balcani sono progredite verso l’Europa orientale e la Russia. Dall’analisi palinologica è emerso un dato sorprendente che riguarda la velocità di questa progressione: in media le querce sono avanzate di 380 m all’anno, con delle punte massime di 500 m all’anno in certi periodi.
Tassonomia
L’inquadramento tassonomico delle specie del genere Quercus è assai difficoltoso, in quanto sono frequenti i fenomeni di ibridazione tra specie che condividono lo stesso territorio, dando luogo ad individui dalle caratteristiche intermedie (ma talvolta anche molto diverse), che alcuni studiosi tendono a considerare nuove specie, mentre altri li ascrivono come sottospecie o varietà di specie già esistenti.

Legname

I legnami più pregiati di quercia sono generalmente chiamati rovere senza distinguere tra le specie botaniche. In enologia si preferiscono le seguenti varietà:

rovere di Francia (Q. petraea) con produzioni ad Allier, Argonne, Borgogna, Nevers, Alvernia (Tronçais) e sui Vosgi, con caratteristiche differenti da zona a zona ma comunque ben bilanciato in tannini e aromi;
rovere del Caucaso (Q. petraea), del tutto simile a quello di produzione francese ma dal prezzo leggermente più basso;
rovere di Slavonia (Q. robur), grana del legno media, medio livello di tannini e pochi aromi;
rovere del Limosino (Q. robur), grana del legno grossa, molti tannini e pochi aromi; usato per lo Chardonnay e il brandy;
rovere del Portogallo (Q. garryana, d’origine americana); media grana del legno, buon aroma e prezzo molto economico.

Ritorna alle specie arboree >>> Vai

Carrubo

Il carrubo (Ceratonia siliqua L., 1753) è un albero da frutto appartenente alla famiglia delle Caesalpiniaceae (altri autori la inseriscono nella famiglia delle Fabaceae) e al genere del Ceratonia.
È prevalentemente dioico (esistono cioè piante con soli fiori maschili e alberi con fiori solo femminili, raramente presentano fiori di ambedue i sessi sulla stessa pianta). Viene chiamato anche carrubbio. Per le sue caratteristiche si può avere sullo stesso carrubo contemporaneamente fiori, frutti e foglie, essendo sempreverde e la maturazione dei frutti molto lunga.

Insieme all’Olea europaea è una specie caratteristica dell’alleanza fitosociologica Oleo-ceratonion.
Descrizione
Il carrubo è un albero poco contorto, sempreverde, robusto, a chioma espansa, ramificato in alto. Può raggiungere un’altezza di 9-10 m.

Ha una crescita molto lenta, anche se è molto longevo e può diventare pluricentenario.

Il fusto è vigoroso, con corteccia grigiastra-marrone, poco fessurata.

Ha foglie composte, paripennate, con 2-5 paia di foglioline robuste, coriacee, ellittiche-obovate di colore verde scuro lucente superiormente, più chiare inferiormente, con margini interi.

La pianta è dioica. I fiori sono molto piccoli, unisessuali, verdastri tendenti al rossiccio; si formano su corti racemi lineari all’ascella delle foglie. I fiori maschili hanno 5 stami liberi; quelli femminili uno stilo corto.

La fioritura avviene in agosto-settembre e la maturazione si completa tra agosto e ottobre dell’anno successivo alla fioritura che ha dato loro origine.

I frutti, chiamati popolarmente carrube o vajane, sono dei lomenti: grandi baccelli indeiscenti lunghi 10–20 cm, spessi e cuoiosi, dapprima di colore verde pallido, in seguito quando sono maturati, nel periodo compreso tra agosto e ottobre, marrone scuro. Presentano una superficie esterna molto dura, con polpa carnosa, pastosa e zuccherina che indurisce col disseccamento. I frutti permangono per parecchio tempo sull’albero e hanno maturazione molto scalare per cui possono essere presenti, allo stesso tempo, frutti secchi di colore marrone, e frutti immaturi di colore più chiaro. A causa dell’elevato contenuto in tannino, la polpa dei frutti può avere effetto irritante, se assunta in grande quantità.

I frutti contengono semi scuri, tondeggiati e appiattiti, assai duri, molto omogenei in peso, detti “carati” poiché venivano utilizzati in passato come misura dell’oro.
Distribuzione e habitat
È pianta spontanea nel bacino del Mediterraneo, del Portogallo e Marocco atlantici, vive nelle zone aride di questa regione. In Italia è presente allo stato spontaneo nelle regioni del Sud mentre è naturalizzata in Toscana e a nord di questa, dove tuttavia è rara. In Puglia, una legge regionale (Art. 18 L. R. 04/06/2007) la fa rientrare nelle specie protette.
Coltivazione

È coltivato specialmente in Nord Africa, Grecia e Cipro e, con minore estensione, in Spagna, Italia meridionale e Albania. In Italia è ancora coltivato in Sicilia, anche se la rilevanza economica di questa produzione è in declino: esistono tuttora importanti carrubeti nel ragusano e nel siracusano; in queste zone sono ancora attive alcune industrie, che trasformano il mesocarpo del carrubo in semilavorati, utilizzati nell’industria dolciaria e alimentare[1]. La provincia di Ragusa copre circa il 70% della produzione nazionale.

Il carrubo è una pianta rustica, poco esigente, che cresce bene in terreni aridi e poveri, anche con molto calcare, non resiste alle gelate, ma sopporta bene i climi caldi.
Utilizzi

I baccelli maturi sono commestibili, si conservano per molto tempo e possono essere consumati, comunemente, freschi o secchi o, in alternativa, passati leggermente al forno. Vengono tradizionalmente consumati soprattutto nei mesi invernali, avendo l’accortezza di scartare i semi, durissimi.
il carrubo è una pianta visitata dalle api, non solo per il polline, ma anche per il nettare da cui se ne può ricavare un miele uniflorale, solo nelle poche aree con un certo numero di piante.
È apprezzata nelle regioni d’origine per l’ombra delle chiome; infatti, conservando un fogliame molto fitto, produce zone d’ombra, preziose in luoghi aridi.
Parte dei succedanei del cioccolato sono ottenuti da pasta o semi di carrube.
Molti addensanti e gelificanti di prodotti alimentari sono ottenuti da farina di semi di carrube.
Oggi i frutti (privati dei semi) vengono usati per l’alimentazione del bestiame. Un tempo furono usati come materiale da fermentazione per la produzione di alcool etilico. Come d’uso nella tradizione popolare, i semi, ridotti in farina, venivano usati come antidiarroici.
I semi, durissimi, sono immangiabili; possono invece essere macinati, ottenendosi così una farina dai molteplici usi, che contiene un’altissima quantità di carrubina, che ha la capacità di assorbire acqua in quantità pari a 100 volte il suo peso.
Siccome i semi erano ritenuti particolarmente uniformi come dimensione e peso, dal loro nome arabo (qīrāṭ o “karat”) è stato derivato il nome dell’unità di misura (carato) in uso per le pietre preziose, equivalente a un quinto di grammo. In realtà la variazione del peso dei semi di carrubo, presi alla rinfusa, arriva al 25%.
Tipica è, nelle piante molto longeve, la comparsa, dopo le prime piogge d’agosto, del cosiddetto fungo del carrubo (Laetiporus sulphureus). Seppur consumato in alcune zone della Sicilia e della Basilicata, esso è un fungo tossico, che può causare spiacevoli disturbi gastro-intestinali.
Il legno di carrubo, per la sua durezza e resistenza, veniva impiegato per la fabbricazione di utensili e macchinari in legno soggetti a usura.
In fitoterapia l’estratto secco del frutto (carruba) è utilizzabile, anche assieme allo zenzero, nel colon irritabile ad alvo diarroico.

 

Ritorna alle specie arboree >>> Vai

La macchia mediterranea, il nome lo dice, è tipica delle terre che si affacciano sul Mar Mediterraneo, oltre che sull’Atlantico, in Marocco e nella parte atlantica della Penisola iberica meridionale. Formazioni arbustive o arborescenti simili per aspetto a delle macchie, costituite cioè da sclerofille, ma del tutto diverse come specie, si trovano in altre regioni della Terra caratterizzate da condizioni climatiche simili a quelle mediterranee. Prendono nomi diversi: chaparral in California, fynbos in Sudafrica, kwongan nell’Australia occidentale, mallee nell’Australia meridionale, mentre in Cile si usa un termine utilizzato anche in Spagna: matorral.

Queste cinque zone ricoprono appena il 2% della superficie delle terre emerse del pianeta ma ospitano oltre il 20% delle specie del pianeta,
rappresentando una riserva di biodiversità.

Queste cinque zone ricoprono appena il 2% della superficie delle terre emerse del pianeta ma ospitano oltre il 20% delle specie del pianeta, rappresentando una riserva di biodiversità.

“Mille Piante di Mile Kolev ha esperienza pluriennale nella Realizzazione,  Manutenzione dei Giardini e Manto Erboso.
Realizzazione pavimentazione e muretti in tufo.
Disinfestazione Aree Verdi
Produzione e vendita delle Nocciole, cespugli, piante ornamentali, cespugli, fiori, granulati, terra e vasi.
Tutto l’occorrente per abbellire il tuo giardino!
 Potete contattarci al numero . +393287595132 Mille Piante Giardiniere

+393280078593 Mille Piante Vivai e composizioni

oppure contattaci via whatsApp o pagina contatti

Affidatevi a Professionisti del Settore!